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IL COLORE DEI PIATTI

di Enzo Raspolli

Siamo ancora alla fermata del 3/400 e siamo a descrivere i caratteri della rivoluzione gastronomica che ha spazzato la grezza cucina di carne derivata dai “barbari” da un lato e quella dalla penitenza ecclesiale dall’altro.
Abbiamo visto nel precedente capitolo (ma che capitoli? diamoci una regolata!) come gli uomini dell’umanesimo (e le su mogli) avessero trasformato la cucina con nuove raffinatezze, accostamenti originali, uso di spezie, salse vellutate, cotture complesse. Ma anche la vista deve essere gratificata da questa rivoluzione gastronomica, e quindi piatti colorati, strutture complesse, eleganza e richiami a quella mitologia classica che avevano riscoperto con la traduzione dei greci e degli antichi Romani.
Questa è gente che ha letto, che si compiace di sé, che sente di essere in una fase di innovazione e di sviluppo.
Certo, poi nei secoli successivi questo amore per l’innovazione e per lo spettacolo porterà ad esagerazioni, a ridondanze, a spettacoli assurdi. Il barocco entrerà anche in cucina.
Ma ora siamo agli albori, ad una innovazione ancora moderata dal gusto.

Ecco quindi i colori della nuova cucina, che si esprime soprattutto se non esclusivamente in Italia ed in Francia.
Con le mandorle, la mollica di pane, il riso, lo zenzero, le polpe di pollo, la farina, il latte, si avranno piatti bianchi, il biancomangiare che era talmente importante anche per l’idea di raffinatezza e di signorilità che lo accompagnava che poi è rimasto nel nostro immaginario anche come alimentazione dei deboli e dei malati.
I tuorli e l’usatissimo zafferano ci daranno piatti e salse di color giallo–oro anche esso importantissimo perché è il colore della luce, di Dio, della elevazione (e della bandiera vaticana, non a caso). Poi inizieremo a vedere direttamente l’oro comparire in molti piatti, sotto forma di limatura o di lamine.
La salsa saracena invece è nera, in ricordo dei mori, mentre con la bietola e i neoarrivati spinaci, con il prezzemolo e con il basilico, si faranno salse e piatti verdi, con la cannella, mescolata magari all’uva sultanina, si ha il color cammello, con il succo dell’uva nera avremo salse “paonazze” mentre con la polpa delle more quelle celesti, con i fegatini di pollo pestati quelle marron e così via.
Ma i nostri non disdegnavano neppure i coloranti artificiali (senza sapere che casino avrebbero messo in moto).
Il succo del legno di sandalo serviva per il rosa, ed una ricetta inglese lo chiama sanc-dragon, sangue di drago.
La radice di Alcanna (Buglossa anchusa) dà un bel rosso, colore che si poteva ottenere anche da licheni o da fiori.
Insomma il cuoco rinascimentale è vicino a quegli alchimisti che nel castello di Praga, in quelle casette minuscole, cercavano la pietra filosofale e la trasmutazione dell’oro. “Il discreto cuoco potrà, in tutte le cose essere edotto, secondo la diversità dei regni; e potrà i mangiari variare e colorare, secondo che a lui parrà”. Non lo dico io che ho fama di essere un critico della ricettazione, ma un ricettario del tempo.

Anche le forme sono curatissime, ovviamente nelle mense ricche o nei piatti importanti, perché, non dimentichiamolo, si parla dei piatti dell’elite sociale, di quelli che sono dentro le 500 lire.
Le salse, grande innovazione di questi secoli, sono molte, colorate e abbinate tra di loro, utilizzando per esempio una preparazione bianca abbinata ad una rossa, se questi sono i colori della famiglia o del festeggiato, oppure mettendo sul tavolo ciotole con salse variamente colorate in modo che ciascuno si aggradasse come più gli piaceva.
Le salse coprivano la materia grezza dei cibi per nobilitarne l’aspetto, per arrotondarne i contorni ed i sapori, per stimolare i commensali, per dare eleganza.
E talvolta sopra le salse ancora elementi di contrasto cromatico e gustativo: zucchero in grani o in un sottilissimo velo, chicchi di melagrana e financo pietre preziose o perle.
Per le composizioni solide eguale fantasia, e quindi tortelli fatti in forma di lettere per comporre nomi o scritte, carne macinata usata per altorilievi, torte e pasticci graziosamente decorati con lavori in pasta.
Le torte sono anche preparazioni utilizzate per quei piatti-gioco che facevano da intermezzo tra le portate.
Mastro Martino, ma in genere tutti i cuochi dell’epoca, ci danno la ricetta di quella torta di uccelli che prevede di preparare sostanzialmente un grande contenitore in pasta cotta all’interno del quale sono posti uccellini vivi che si librano in volo al momento del taglio.
E tutti fanno ooooooohhhhh….
Ma anche portare in tavola un pavone cotto a puntino, ma ricoperto delle sue stesse penne in modo che sembri vivo è una bella soddisfazione e poi anche una citazione colta (ricordate le cene romane di Trimalcione?)
La tecnica era semplice seppur difficile. L’animale veniva scuoiato con tutte le sue penne e poi cotto con la testa avvolta in panni bagnati.
Una volta cotto veniva “rivestito” ed in bocca gli veniva messo del cotone con alcool in modo che portato in tavola gettasse fiamme dalla bocca.
Se lo volete fare, si chiama “Pavo indico con testa ardente”. Non “ar dente” come direbbe Totti.
Dell’oro abbiamo già detto, ma rimane da dire che un artigiano specializzato, il “battioloro” era incaricato di battere lamine sottilissime per farle aderire perfettamente all’animale sottostante cotto a puntino.
Oddio, se avesse saputo che noi l’alluminio lo adoperiamo a rotoli e costa nasega, si sarebbe suicidato.

Una passione vera dei nostri sono le gelatine.
Trasparenti o lievemente colorate, tremolanti e di aspetto prezioso, sono chiamate a contenere carni, pesci con foglie, fiori e quanto serve per farne delle piccole opere d’arte.
E non c’era neppure coquinaria per le ricettine ed i fotogrammi.
Eppure …. In tutta questa eleganza, in questa ricerca di piacere nel cibo, i trattati non prendono assolutamente in esame il profumo.
I cuochi lavorano con tante spezie, sanno bene come trattarle perché diano il massimo, ma di profumi nessuno parla.

Poi c’è ancora l’assoluta commistione tra dolce e salato, soprattutto con l’uso decorativo dello zucchero.
Lo abbiamo già conosciuto, lo zucchero, prodotto prima dagli arabi in Andalusia e in Sicilia, ma importato anche dall’india (la parola, in sancrito vuol dire sabbia, ghiaia). I grandi consumatori sono a Nord (Inghilterra) e al Sud dell’Europa (Italia, Francia mediterranea) mentre nel centro europa arriverà tardi.

Merita infine dire che nei banchetti è arrivato il tartufo, e non andrà più via, ma soprattutto annunciare urbi et orbi che abbiamo un invito.
Siamo stati inviatati ad un matrimonio.
Battista Sforza è una ragazzina di 14 anni, non un domestico, non facciamo figure barbine!) va in sposa a Federico da Montefeltro. PESARO 1459.
Siamo tutti invitati. La sera si cena dalla Francesca.

Come ricettina ci sarebbe quel pasticcio di uccelli vivi:
Fa una forma di pastello ben grande, et nel fondo gli farai un bucho tanto che vi possi passare il pugno, o magiore se ti piace, et che le sponde dattorno siano un poco asticelle oltra la comuna consuetudine, et piena di farina la farai cocere al forno. Et cotta, aperto quello buscio di sotto ne caverai fora la farina, et haverai apparecchiato un altro castelletto pieno di bona roba ben cotto et stagionato, fatto a la mesura di quello buscio che ha di sotto la forma grande, et per quello lo mettirai in la ditta forma, et in quello voto che restarà atorno atorno al piccolo pastello gli metterai dell’uccelli vivi, quanti gliele possano capere ; et li ditti uccellini vogliono essere posti in quel ponto che ‘l voli mandare in tavola et servito dinnanzi a coloro che sedono al convito, farai levare il coperchio di sopra, et volarando via quelli uccellini. Et questo per dare festa et solaio a la briata. Et perché non rimangano gabati, gli farai tagliare del pastello piccholo.





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