di Enzo Raspolli

Abbiamo visto che dal ‘400 in poi inizia una bella produzione libraria e, quindi anche di trattati che riguardano l’alimentazione e la cucina.
Si pubblicavano fino ad un volume nuovo ogni 7 o 8 anni ed in più c’erano le ristampe; una gran confusione, ebbe a dire la bisnonna di Fiorella, che anche lei faceva la libraia.
Del Savonarola abbiamo già detto, ed io mi domandavo se era parente di quello di Firenze detto “fochino”; ebbene si, era proprio il nonno ed era il medico-dietista di Borso d’Este.
Ora uno che fa il dietista di Borso, quanto meno dovrebbe fargli cambiare il nome, invece il nostro Michele aveva scritto un trattato intitolato “Libreto de tutte le cosse che se manzano”.
Ci credo che poi il paziente diventa borso.
Aveva scritto trattati anche sull’ostericia, sull’acquavite, sulle cure termali; insomma un omino tuttofare.
Importante è anche Cristoforo de Messinburgo, tedesco, di nome e di fatto, conte Palatino e scalco del Cardinale Ippolito d’Este che proprio sulla organizzazione generale dei banchetti scrisse un trattato che sarà il punto di riferimenti fino al ‘700.
Il Messimburgo, tanto per non vantarsi, fa notare che ai banchetti da lui organizzati, era talvolta impiegato, come lettore di racconti tra una portata e l’altra, un tal Ariosto Ludovico. Invece lo Scappi, cuoco segreto di Papa Paolo V, sta dalla parte dei cuochi, contro gli scalchi che li fanno lavorare come bestie e poi si prendono tutti gli onori del banchetto.
Ma la fama dello Scappi è dovuta soprattutto alle illustrazioni con cui abbellisce il suo libro e che sono tutt’oggi molto usate in stampe “d’epoca”.
Un libro certamente importante fu “La singolar dottrina” di Domenico Romoli, conosciuto come Panunto, fiorentino, che scrive una sorta di enciclopedia in tredici libri che svariano dagli incarichi a corte ai pesci di stagione e alle ricette.
Dell’arte cisoria, cioè dell’opera del trinciante e soprattutto del trinciante in aria, ho già detto ma in questi trattati si trovano descritte alla perfezione tutte le tecniche.
Il Cervio, che era stato un gran trinciante, scrive un libro specifico ed introduce anche una valutazione sui tagli da usare per ciascun pesce o animale.
Per un pollo od un piccione “in tutto saranno 15 colpi” dice il Cervio, e per chi ne usa di più “sarà vergogna grande”.
Il trinciante deve dare spettacolo e se non lo da e “ Si lascerà condurre a trinciar lontano dalla vista del suo Signore, li sarà gran vergogna, e non sarà degno d’haver nome di trinciante”.

Ma con l’avanzare del ‘500 si avvicina il barocco ed anche la tavola si “barrocchizza” ancor più.
Sono arrivati in tavola i lini, cioè i tovaglioli. La forchetta ancora no, ma proprio perché non c’era la forchetta ci si sporcavano molto le mani e quindi c’era la necessità di pulirsi. Fino ad allora servivano ottimamente le tovaglie. Ne venivano messe 4 una sopra l’altra, nei banchetti e tra una portata e l’altra si levavano le tovaglie sporche.
Ma insomma ormai pulirsi le mani o soffiarsi il naso alla tovaglia è considerato out, anche prima della diffusione dell’inglese, ed allora ecco i tovaglioli.
Ma questi sono l’occasione per fare delle “ganzate”.
Il “bavaro” Mattia Giegher scrive appunto “Li tre trattati” di cui uno è dedicato all’arte di apparecchiare la tavola.
E i tovaglioli vanno piegati bene, Dio, se vanno piegati. E per piegarli meglio sono inamidati tanto che saranno stati simili a cartoni.
Ma in compenso si potevano fare non solo ventagli, piramidi, freccie o barchette, ma, insegna con abbondanti figure il Geiger, anche il pavone, l’aquila bicipite, il drago, l’orca marina, il coccodrillo, l’orso, il grande bastimento a vele spiegate e, udite udite, lo stemma nobiliare del personaggio di rilievo a cui il banchetto è dedicato.
Con il tovagliolo, si, con il tovagliolo.
Il tavolo sarà quindi apparecchiato con statue di zucchero o di pasta, magari strutturate su ferri, stecchi di legno ecc, tanto da dire che l’architettura è una branca della pasticceria.
Al posto delle statue si possono anche avere castelli, animali ecc. l’importante è che stupiscano.
I tovaglioli sono quelli che abbiamo detto.
I vassoi saranno disposti in modo che uno serva a 4 commensali ed avremo un vassoio maggiore, uno minore e 6 o 8 piattelli minori.
Se sul maggiore c’è un servizio di cucina costituito mettiamo da un pasticcio, sul secondo avremo magari una gallina lessa e sui piattelli avremo lingua, trippe, salciccioni, fegato, potaggio (minestra) ecc.
Ed ogni commensale prendeva dai vassoi a seconda della sua scelta, mettendo i pezzetti scelti direttamente in bocca o su una fetta di pane o su una frittatina che fungeva, all’ingrosso, da piatto.
Questo era il “servizio all’italiana” che solo molto tardi, nel ‘700 inoltrato, sarà sostituito dal servizio alla russa, con i piatti individuali.

I trattati di cui dicevamo si estendono anche ai vini, ma per questi è molto difficile capire a cosa si riferiscono i nomi che si incontrano nei trattati.
D’altronde in Europa la filossera del 1858 e la peronospora del 1878 distruggeranno tutti i vigneti e quindi non abbiamo cognizione di quali fossero le caratteristiche organolettiche di “quei” vini.
Quando sulle bottiglie trovate “coltivato fin da epoca romana ..” cercate il contadino relativo e tirate la bottiglia nella testa dicendo: “questa bottiglia te la manda Enzo …”.
Poi il vino del ‘500 non sapeva viaggiare, come l’ex Sindaco di Campiglia che dovendo andare in ferie in Dalmazia si portò seco un prosciutto da casa.
Il vino cambiava colore e sapore; in fondo credo che beviamo molto meglio ora, come dice Alessandro.
La maggior parte delle nostre conoscenze le abbiamo dal bottigliere di Papa Paolo III, Sante Lancerio, che in una lettera al Cardinale Guido Ascanio Sforza descrive i vini serviti abitualmente alla corte pontificia.
Paolo III era un Farnese e quindi amava i vini del parmense, ma soprattutto quelli laziali ma non disdegnava quelli del sud.
Alla Ripa Grande del Tevere attraccavano piccole navi con Greco non solo campano ma anche di Montepulciano, il trebbiano della Toscana, il Monterosso ed i vini delle cinque terre.
Vini importanti venivano, come abbiamo visto, dall’Oriente. Il Candia, la Malvasia mentre i vini francesi erano mal visti e considerati cosa da poco.
Al di la della curiosità se ne deducono alcune cose importanti:

1) Nessun accenno agli abbinamenti tra cibo e vini se non per i dolci e la frutta, con l’unica eccezione del Panunto, che è l’unico a dare sommarie indicazioni.
2) I vini non sono “invecchiabili” in quanto si deteriorano assai rapidamente.
3) Si usano prevalentemente annacquati e con varie aggiunte.
4) Sono considerati alla stregua di farmaci ed usati anche per applicazioni esterne.

Interessanti, ancorché del tutto sbagliate, sono le attribuzioni farmacologiche che vengono affibbiate ai vari vini.
Il Pisanelli, medico e scrittore, ci dice che “il vino rosso nutrisce molto bene, genera buon sangue, leva la sincope e fa vedere sogni grati la notte” . Questa idea del vino rosso che genera il sangue è giunta fino a noi.
Dice poi, ma questo è certamente vero, che il vino bianco “leva l’appetito del coito, perché dissecca lo sperma” come ben sanno tutti gli amici Trentini.





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