Foto fornita da www.taccuinistorici.it


VACCA BOIA LO DICI A TUA SORELLA
di Enzo Raspolli

La carestia del Bangladesh fu la prima ad essere “pubblicizzata” dalla giovane televisione in bianco e nero. A noi, che stavamo “in fondo alla campagna”, parve incredibile che si dovessero paracadutare i viveri a quella povera gente. Ma siccome eravamo toscani cinici e non gente di Asti, qualcuno disse subito che a seguito di un lancio di scatolette Simmenthal c’era stata una protesta ufficiale: di cibo avevano bisogno, quei poveracci, non di santini.
Fu l’occasione per imparare che gli indiani non mangiavano le mucche ed i vitelli, e ci apparve subito una “moda” ben strana. Soprattutto a noi che le allevavamo e ne mangiavamo tanto meno di quanto avremmo voluto.
La Costituzione Indiana, mica un decretuccio qualsiasi, stabilisce il divieto di macellare vacche, della marca “bos indicus” mentre i bufali ed altre varianti bovine se la cavano peggio.
Certo che comunque le vacche “assicurate” sono 180 milioni, quindi non soffrono la solitudine.
Un quarto di queste sono bestie decrepite, spesso ospitate da istituzioni religiose o vaganti intorno ai templi, mentre per il resto danno un po’ di latte e, soprattutto i maschi, forza lavoro nei milioni di piccoli campi che contraddistinguono la maglia poderale indiana.
L’induismo protegge la nostra bestia, ed è un sentimento profondo. Io ci scherzo un po’, ma ne ho pieno rispetto e, avendo letto Marvin Harris, proverò anche a spiegare che oltre a ragioni emotive e trascendenti vi sono delle ottime ragioni pratiche per questa venerazione.
Anzi Marvin (ci si chiama per nome) sostiene che proprio le ottime ragioni pratiche hanno determinato la santificazione di questa bestia mansueta e parca.
Gli Indù trattano le vacche come persone di famiglia, parlano loro e le danno nomi propri (ma quello si faceva anche noi contadini ….. “rosina” “bianca” e vai nominando).
Krsna, Dio della misericordia è presentato come vaccaro, il mix di latte, yougurt, burro, orina e sterco di mucca costituiscono un nettare con cui si “ungono” le statue ed i fedeli e cento altri sono i momenti in cui la vacca ed i suoi prodotti corporei sono utilizzati in cerimonie di alto valore ideale ed emotivo.
La vacca è la nostra madre e ci regala latte e burro, suo figlio lavora con noi e per noi, questo pensa un indiano, ed è un pensiero fermo e sereno, più volte sottolineato dallo stesso Ghandi.
La sacralità deriva dalla teoria della trasmigrazione delle anime e la vacca è l’ultima delle 86 trasmigrazioni prima di quella umana per la via verso il nirvana.
Ogni vacca contiene 330 milioni di divinità, anche se qualcuna magari non ha il fisico.
Ma se un uomo uccide una vacca succede come nel gioco dell’oca e si rincomincia daccapo.
E fare altre 85 vite ………. dupalle.
Quindi la religione Indu, che è fortemente radicata, ha assunto la vacca come elemento centrale della sua predicazione e lo Stato ha conformato a questo le proprie leggi.
Ovvia, cerchiamo i lumi nella storia.
I Veda erano un antico popolo di coltivatori e allevatori che abitarono le pianure indiane tra il 1.800 e l’800 a.c. e mangiavano le vacche. Vedi te.
Loro, i Veda, avevano 4 caste, e quella dei sacerdoti, i Brahamani, era incaricata appunto di celebrare feste che comprendevano sacrifici di vacche e lauti conseguenti banchetti.
Solo loro però potevano ammazzare le vacche, ma lo facevano, e dimolto. L’antico libro RgVeda precisano le caratteristiche che dovevano avere i bovini per i diversi tipi di sacrificio.
A quel tempo gli Dei partecipavano al banchetto assumendo la parte spirituale dell’animale sacrificato e i banchettanti si consolavano con le polpe, ma lo facevano tutti i popoli di coltivatori-allevatori. Pensate a miei zii etruschi, per dire.
Ma a forza di mangiar bene andò a finire che la popolazione aumentò e allora iniziarono a mancare le vacche per tutti, o, più seriamente, si manifestò una crisi alimentare che impose una maggiore coltivazione di granaglie, piselli, lenticchie, miglio ecc.
Abbiamo già detto che il rapporto tra proteine vegetali e quelle animali è di 1 a 7 cioè che ci vogliono 7 proteine vegetali per farne 1 animale e quando la pancia brontola è molto meglio mangiare le 7 proteine verdi che l’unica rossa, oppure far vivere le mucche per avere latte e formaggio, che era comunque un bel vantaggio rispetto ad avere una mucca morta.
Ma quando una cosa scarseggia ci sono sempre quelli che ce l’hanno comunque ed aumenta il numero di quelli che brontolano e “le palle ancor gli girano”.
Intorno al 600 a.c. la situazione era critica, diremo oggi rivoluzionaria.
Eccoti capitare allora un tal Gautama, che prenderà poi il nome d’arte di Buddha tra il 563 ed il 483 a.c.
Egli si oppose alle idee delle caste dominanti, predicò contro l’uccisione degli uomini e degli animali, sostituì l’idea della meditazione a quella dei sacrifici.
L’impatto del Buddismo fù immediato. Alcuni portarono alle estreme conseguenze la sua predicazione “pacifista” ed ancora oggi alcune sette, come i Jainisti, inorridiscono al pensiero di poter calpestare sbadatamente ragnetti o formiche oppure si dedicano alla assistenza agli animali più svariati.
Pensate ad una società di milioni di contadini poveri che stentavano a coltivare i loro campetti e a cui la casta dei Bramani requisiva i vitelli per ammazzarli e farli mangiare alla casta dei principi.
Boni si, ma coglioni no!
Allora in pochi decenni furono proprio le caste dominanti a fare marcia indietro. Per non precipitare in un baratro non solo ammisero una buona parte degli insegnamenti buddisti, ma se ne fecero a loro volta paladini.
Asoka, primo imperatore dell’India intera nel 257 a.c. si convertì al buddismo, proibendo le cerimonie di sacrifici animali ma lasciando la possibilità di mangiare carne purchè non fossero i credenti ad uccidere gli animali. Questo rimane ancor oggi un principio fondamentale dei buddisti. A dir la verità è un principio un po’ pilatesco, ma chi è innocente scagli la prima pietra.
Insomma l’induismo invece di scontrarsi con il buddismo non solo ne assunse alcuni principi ma andò oltre. Non solo rinunciò ai sacrifici dei bovini ma ne incoraggiò la santificazione, assumendo sempre di più la mucca come animale sacro.
In questo modo pian piano il buddismo fu “sconfitto” o se vogliamo assimilato dalla religione induista.
E scomparve dall’India, andandosi a collocare sulle montagne, dove non c’erano mucche.
E la mucca ne uscì trionfatrice.
Oddio, siamo sempre in periodo di vacche magre, ma quello dipende dal fatto che la fame c’è per tutti, mucche comprese.
Vediamola un po’ da vicino, questa chiesa ambulante.
Si tratta di un animale dalla salute di ferro, capace di sopravvivere anche con pochissimo cibo, che dà poco latte ma che può brucare e trovare da sé il cibo minimo necessario. Solo in periodo di aratura gli vengono date razioni robuste di tavolette alimentari composte con gli avanzi di tessitura, erbe non commestibili e rifiuti organici.
Quindi non è competitrice alimentare dell’uomo, come il nostro maiale, anzi ha un “rendimento” eccezionale, come tutti i ruminanti.
Poi possono lavorare per almeno una dodicina di anni e da quando sono stati inventati gli aratri in ferro è il mezzo più razionale per coltivare le microproprietà dei poveri contadini indiani.
Al contrario del trattore non ha costi di ammortamento, non consuma petrolio, non ha pezzi di ricambio costosissimi ed introvabili e poi quando non c’è nulla da arare si arrangia da se a trovarsi da mangiare.
E poi con gli escrementi secchi si può fare il fuoco. Provate con il trattore!
Io ci scherzo, ma i calcoli economici sono stati fatti da dei professoroni; ed è vero, per la piccolissima proprietà a monocultura una coppia di buoi è molto più economica di un trattore.
Poi anche una mucchetta mal messa ogni due o tre anni un vitello lo fa, un paio di litri di latte al giorno pure, per defecare defeca e quindi, nel suo piccolo, è una macchinetta interessante. Comunque meglio di nulla.
Oddio, ogni tanto qualche contadino vende la mucca ormai decrepita ai mercanti arabi, tanto loro mica hanno tabù religiosi verso le mucche ed un certo mercato di carne bovina permane.
Così come è permesso ai paria, la casta degli intoccabili, di mangiare qualche parte delle carcasse putrefatte delle mucche morte di inedia o vecchiaia.
Mica sono di slow food.
Poi tante vacche ormai decrepite sono ospitate in apposite “pensioni” gestite da associazioni religiose sia indu che Jaina. Sono circa 3.000 ricoveri che ospitano circa 600.000 capi e vivono di elemosine e sfruttando un po’ il latte che le bestioline possono dare.
Quindi non vi è nulla di irrazionale nell’amore degli indiani per le mucche. Semmai il problema è migliorare la qualità dei bovini, favorire una riqualificazione del bestiame con un po’ più di specializzazione (latte / lavoro) e per questo lavora il governo indiano.
Perché il problema è trovare comunque animali che campino di alimenti vegetali residuali, mica di granaglie o di erba medica falciata nei prati.
I contadini indiani non possono permettersi di dare alle vacche ne le granaglie che sfamano a stento loro stessi e nemmeno di dedicare i campi a fare erba per le mucche.
Esse si arrangino.
330 milioni di divinità portano con sé.
Allora noi che con solo un’immagine di San Cristoforo si devono evitare incidenti ed autovelox?

Ma noi, che facciamo i furbi e si guardano gli indiani dall’alto in basso, noi cattolici occidentali, abbiamo avuto animali-tabù?
Si, e ne parleremo presto.




© 2000-2003 Coquinaria - Tutti i diritti riservati - Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.