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di Enzo Raspolli

Allora siamo arrivati, faticosamente, al '600.
La scoperta dell’America, che è frutto e stimolo a nuovi viaggi, non per trovare le mitiche spezie, che ormai hanno perduto importanza in cucina, ma il ben più solido oro, l’argento ed i nuovi prodotti alimentari tra cui il cacao, il caffè e lo zucchero.
La scoperta dell’america, dicevo, e tutte le altre scoperte che si susseguono, portano nuova ricchezza ai grandi imperi. Spagna, Portogallo, Francia, Fiandre, Inghilterra ecc. diventano il nuovo centro del mondo. Il mediterraneo è ridotto ad una gozza d’acqua che assiste alla decadenza veneziana e l’Italia, che ancora non c’è, perde ruolo ed importanza, divisa in statarelli litigiosi e comunque subalterni alle grandi monarchie europee.
Per coltivare caffè, zucchero e poi cotone viene prodotta una nuova merce: gli schiavi.
Non che non ci fossero anche prima, ma insomma c’è un revival. Tornano gli anni 00 (non nel senso della farina, ma in quello dei Romani).
Abbiamo visto che si intrecciano anche, in questi secoli, le riforme religiose in Europa. Huss è bruciato, nella piazza di Praga, ma ormai le varie Chiese riformate sono maggioritarie nel Nord Europa e con questa rivoluzione teologica ce n’è anche una alimentare: tutta l’impalcatura dei digiuni, il mangiar di magro, le astinenze ecc. crollano ed emerge una concezione secondo cui il piacere è un dono di Dio e quindi giù burro, birra e carne.

La cucina francese conquista ora, nel ‘600, la sua egemonia nel mondo civile.
Nel 1682 si pubblica a Bologna la prima traduzione de “Il cuoco Francese” di Varenne, che non era un cavallo ma un grande cuoco, che sarà ristampata fino all’800 inoltrato. Inizia così l’invasione di libri francesi di cucina. Anche la lingua dei cuochi diviene il francese e le nuove salse “bianche” diventano il termine di paragone della nuova cucina.
Il marchese di Bèschameil, Subise e la dadolatta di Mirepoix diventano nuovi miti.
La svolta verso il burro porta a nuovi traguardi.
Quasi per reazione in Italia vanno conquistando posizione le insalate; non sono più i napoletani i “mangiafoglie” ma tutta la penisola mastica verdure.
Un profugo religioso in Inghilterra, Giacomo Castelvetro, per celebrare la cucina dell’amata patria, scrive e pubblica un “Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano”.
Ma non è il solo italiano a sciver di verdure. Costanzo Felici nel 1569 aveva scritto “ Dell’insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo dell’homo” e Salvatore Massonio “Archidipno, ovvero dell’insalata, e dell’uso di essa”.
Accanto alle verdure nel mercato italiano acquistano ancor più rilievo i legumi e i farinacei.
Allora erano segno di miseria, ma oggi quella tradizione di miseria è diventato un “giacimento gastronomico”.
L’avessero saputo, i nostri nonni.

Il letterato–gastronomo del '600 italiano è Vincenzo Tanara che scrive nel 1644 un volume pesantissimo (600 pagine scritte piccine piccine). L’idea di fondo è quella di valorizzare la vita in campagna, contrapposta alla città dove il cittadino “ … è un misero forzato, avvinto dalla dura catena della continua servitù …”.
Insomma era del Sole che ride, ma anche lui non lo sapeva.
Il Tanara non a caso intitola il suo libro “L’economia del cittadino in villa” ed intreccia annotazioni gastronomiche con suggerimenti sulle coltivazioni e valutazioni “mediche” sui diversi prodotti.
Ma, da buon gastrocontadino, non si limita a dare ricette per la cucina alta, anzi vola basso e suggerisce addirittura come preparare da bere. Non solo vino e birra, ma decotti, tra cui quello di liquirizia, di gambi di ciliegie, di cicoria e di invidia, e poi infusioni a freddo di anice, visciole ecc.
Insomma i suoi contadini erano messi maluccio; gli toccava bere dei bei troiai.
Così imparavano ad avere un padrone scrittore.

Ai cuochi del palazzo, soprattutto in città, che “dal fuoco riscaldati & asciutti ne hanno maggior bisogno” assegna ben 3 boccali di vino, ai carrozzieri 2 e alle donne di servizio “che si accontentano di meno” bastava 1.
Ed il boccale bolognese aveva la capacità di 1,3 litri.

Il libro è, anche per la sua vocazione “enciclopedica”, assai interessante per capire il valore attribuito nel secolo del barocco, ai vari cibi.
Appaiono ben messi i tartufi, che lui trovava a Castelfranco Emilia, la mostarda di Cremona e molte ricette a base di miele.
Quasi ignorati invece i prodotti che venivano dall’America, a riprova della lentezza con cui questi entrarono nella consuetudine alimentare.
Ma il Tanara è il cantore del maiale. Da buon emiliano dedica 110 paragrafi al porco. Non dimentichiamo che fin da tempi immemorabili i maiali potevano essere allevati anche in città. A Bologna l’unica limitazione era che i maschi fossero castrati ed avessero un anello al naso.
Quindi il maiale è la carne per eccellenza, ma anche il fornitore di lardo in zone dove l’olivo non c’era e dove il latte veniva usato soprattutto per far formaggi, e che formaggio, il parmigiano!
Si trovano anche ricette “curiose” come quella per cuocere il maiale di latte introducendo dalla gola e dal “foro” delle grosse anguille cocendo quindi insieme “in porchetta” i due tipi di animali.
Il Tanara ci dice anche di utilizzare i bricioli che rimangono dalla fusione dello strutto (ciccioli) con “un’ottima pizza da noi chiamata crescente”.
Al che mi viene la nostalgia di Federica.
Il lardo di maiale era una delle risorse fondamentali della cucina pre-colesterolica, tanto che in lombardia era corrente l’elemosina fatta con fette di lardo, magari a seguito di lasciti testamentari.
Se ne trovano innumerevoli prove negli atti notarili.
C’è in proposito una bella preparazione di lardo battuto con un bastone a crudo ed insaporito con cannella, garofano, pepe, ambra, zucchero ed acqua di cedro e di rose, colorato con estratto di sandalo e poi conservato in forma di salciccie.
Le salciccie poi, debitamente forate, andranno ad insaporire e colorire le minestre.

Anche l’oca era una bella risorsa di carne e di grasso.
Ma l’oca è sempre stata vista come un animale utile, più che “buono”.
Anche dell’oca si utilizzava tutto, dalle penne grandi per scrivere a quelle piccole per imbottire, dal grasso per conservare alla carne che si conserva anche come insaccato.
Anche Tanara ne parla a lungo, insegnando a farla ingrassare con nutrimento forzato di fichi o di un impasto di farina, miele e mosto cotto.
Siccome la povera bestia usa il fegato come deposito di grasso ne avremo dei fegati mostruosi da conservare nel suo stesso lardo oppure da insaccare.
Ecco che qui si incrociano le nuove tendenze francesi.
Il grasso d’oca, da solo, invece era ottimo per dare sostanza alle minestre, ma, dice Tanara, viene a noia presto, tanto che dopo pochi giorni si desidera tornare all’olio o al buon lardo di maiale.
Qui in toscana le oche (paperi) erano il cibo durante la trebbiatura, quando le famiglie si scambiavano la forza lavoro.
In pratica per una ventina di giorni un gruppo numeroso di contadini faceva il giro di tutti i poderi per trebbiare il grano, mangiando regolarmente paperi.
Tanto che negli anni ’50 un gruppo di giovani pensò bene di passare dai poderi ammazzando preventivamente i paperi pronti per la trebbiatura, in modo che la famiglia fosse costretta a por mano ai conigli o agli insaccati di maiale.
E posso giurare che nessuno aveva letto il Tanara.

Ma la nuova ricchezza che veniva dal mare, i rinnovati commerci, il dinamismo sociale, avevano portato certamente un periodo di ricchezza diffusa.
E questo volle dire anche un aumento di popolazione.
La gente quando mangia meglio e non ha la TV produce figli i quali, trovando un tot da mangiare, evitano di morire.
E così mi preparano il settecento, secolo di carestie e di grande fame.
Non si può nemmeno rombare in pace!




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