Cari amici coquinari,
oggi ho avuto occasione di leggere un topic dedicato ai maccheroni cacio e pepe nel quale si discettava su quali fossero i maccheroni più adatti e su quale fosse la ricetta più corretta.
Quelli che discettavano di più erano gli amici coquinari romani ritenendo tal piatto appartenere alla tradizione culinaria romana.
Mi spiace dover dare una delusione agli amici romani, ma i maccheroni cacio e pepe non sono affatto una ricetta della tradizione romana , ma sono una ricetta tipicamente napoletana, nata nella capitale della Campania quando ancora i maccheroni a Roma erano molto poco diffusi, in quando gravati da una imposta doganale molto per puri giochi politici fra le gerarchie ecclesiastiche e l'amministrazione borbonica.
A Roma a quell'epoca, mi riferisco alla prima metà del diciannovesimo secolo, erano solo diffuse le fettuccine fatte in casa con farina di grano tenero e uova.
I maccherono cacio e pepe, invece sono una invenzione popolare della cucina napoletana risalente fra il diciassetesimo ed il diciottesimo secolo, quando, per sfamare la accresciuta popolazione, la amministrazione borbonica introdusse a Napoli il consumo dei maccheroni che precedentemente erano diffusi solo in Sicilia. Fu in quell'epoca che il popolo napoletano si trasformà da mangiafoglie a mangiamaccheroni, relegando alle sole mense dei ricchi il precedente piatto principale: il pignato grasso.
Anche l'interpretazione del termine cacio è differente.
I romani ritengono generalmente che cacio sia un sostantivo derivante dalla contrazione del sostantivo caciotta e come tale rappresentativo della caciotta tipica locale di pecorino; il termine cacio invece, riferito alla tradizione napoletana, è una contrazione della parola caciocavallo, il tipico formaggio campano a pasta filata che normalmente si consumava tal quale, ma del quale si riutilizzavano le croste dure sui maccaroni grattuggiandole.
Giacchè queste mie affermazioni, potrebbero suscitare scandalo fra i romani e, magari, potrei essere accusato di scarsa veridicità , voglio corroborare le mie affermazioni riportando un testo letterario dell'epoca.
Il testo del quale metterà di seguito uno stralcio è un articolo dello scrittore storiografo naopletano Carlo Tito Dal Bono che verso la metà del 1800 scrisse un saggio intitolato "La taverna" che fu poi pubblicato nel 1866 nella grande opera "Usi e costumi di Napoli e Contorni" diretto ed edito a cura del letterato napoletano Francesco De Bochard .
Il saggio descrive le taverne pubbliche napoletane dove all'epoca si distribuiva la pasta al popolo.
Eccone uno stralcio
In sul limitare della taverna, e talvolta schierata in bella ordinanza sul davanti di essa, vedesi una falange di
piccoli focolari o fornelli di terra e mattoni, ove si innalzano caldaie, si muovono padelle, si scoperchiano
"pignatte".
I maccheroni, e chi nol sa? sono la forma onde lo straniero contrassegnava la plebe napoletana. La fabbricazione
de' celebri maccaroni napoletani, è fatta la più volte in siti di buon aria. Offrono le migliori fabbriche
Portici, lungo la linea di Napoli, le cui Torri, famose per istorica ricordanza, erette per difesa ai nostri lidi, e
la incantevole Costiera Amalfitana; ma celebratissima come il suo vino è la pasta di Gragnano e fra tutti, per la
loro proporzione cilindrica, sono reputati i maccheroni della 'Zita....
Alla comun maniera di fabbricare tal pasta, si è unita oggi la macchina idraulica e, fra i seguaci dell'uno e
dell'altro sistema, si eccita già una maccaronica emulazione. Pregio di questo lavorio è non pur la bianchezza che non sempre è visibile e con taluni procedimenti si manifesta nell'acqua da cuocere, ma pregio singolare è la finezza della pasta, la larghezza dell'orificio, il sapore che non senta troppo la semola; la qualità delle acque e il clima rendono i nostri maccheroni di squisito sapore, e quante volte in altri paesi d'Italia si è tentato di
raggiungerela perfezione, ragioni indipendenti dalla volontà del lavorante ne hanno impedito il miglioramento.
Prova ne sia che a Roma, ove la pasta napoletana è soggetta a grave dazio, si mangiano maccaroni e paste ove sono introdotte le uova, e Firenze, o per meglio dir la Toscana, usa come i nostri maccheroni i suoi cannelloni i quali somigliano ai nostri.
Cibo sano, facile a satollare, non costoso, semplice, il napoletano ne trae miglior effetto che non la polenta. Le
consuetudini delle ricche mense han dato a questo cibo svariati condimenti, ma il napoletano li mangia più spesso
col semplice formaggio bianco. Perà di lato alla ampia e fumante caldaia maccaronese, è un ampio piatto, bacile o
scafarea di bianco formaggio, nuova piramide d'Egitto, ornata dalla punta alla base da strisce nere fatte col
pepe, e sul culmine della quale spesso è posato un pomodoro o, in mancanza di questo, un fiore rosso.
Sopravveglia e provvede alla somministrazione il tavernaio, uomo le più volte non giovane, e però savio
dispensatore, le più volte rubicondo e paffuto, sferico dall'ombellico in giù, il quale come nel piatto
distribuisce i caldi maccheroni e di una mano si vale a reggerlo, l'altra pone sulla piramide del formaggio, e di
quella, non dannosa polvere, sparge i maccheroni.
Intorno a lui son monelli, uomini che hanno da fare tanto da non aver tempo di sedere, donne che fan presente di
una scudellina così composta ai loro piccin, poveri per i quali l'obolo della carità si tramuta in maccaroni.
Talvolta poi dopo il formaggio i maccaroni si tingono di color purpureoo paonazzo, quando cioè il tavernario del
sugo di pomodoro o di ragù (specie di stufato), copre quasi rugiada sui fiori, la polvere del formaggio e l'avvolgimento de' serpeggianti vermicelli o maccaroncelli.
La equità del tavernaio merita di andare in proverbio: egli è attento innanzitutto a sè;di rado il popolo si
appella a lui per ingiustizia, egli è uomo imparziale e il grano o il tornese sono rappresentati dalle sue mani. A
dir corto, egli ha nelle mani la squadra, le seste negli occhi e, se taluna volta si lascia corrompere sino ad
accodare uno o due maccheroni di più, è soltanto per amor di una piccina. La donna con i suoi vezzi e le sue ciance,
il bravo minaccioso col suo bastone, il rissaiolo pronto ad attaccare brighe, non lo seducono nè lo spaventano.
Egli è impassibile innanzi al suo dovere, e senza essere un geometra, un algebrista, ovvero un cosiddetto
contabile, egli ha la cifra dei maccheroni con sè, e conosce senza eccezioni la difficile operazione del dividere.
Ma se il tavernaro è giusto dispensatore, il mangiator di maccheroni non è già colui che lo applauda di tanta
equità . Il vero mangiamaccaroni è sempre un essere eccezionale, il quale non gusta eminentente che quel cibo solo, e di ogni altro si fastidisce. Egli grida morte ai Vatel, fa guerra agli intingoli, bestemmia i brodi. Come taluni
uomini crederebbero trovarsi in punto di morte, se vedessero comparirsi innanzi la persona del medico, il
mangiamaccaroni crederebbe di essere in bivio di perdere la vita, se si vedesse presentare una scodella di brodo.
Egli rispetta i maccaroni, o i vermicelli al parmigiano, ma onora quelli avvoltolati di cacio calabro, o bianco, si
diletta del sugo della carne, ma l'acre pomodoro lo alletta forse in pari modo e dove mancassero l'uno e l'altra si
attiene alla netta semplicità di puro cacio. Il mangiatore del volgo si fa forchetta di due dita, solleva i
maccaroni o i vermicelli mezzo palmo sopra la bocca, e poi facendo un lieve movimento di girazione spirale ve li
caccia dentro, con una destrezza che rivela la pratica, senza mai sporcarsi. Se il mangiatore è gentiluomo, esegue
con la forchetta un movimento di girazione nel piatto e vi raccoglie i vermicelli o i piccoli maccaroni e li
tracanna rapidamente. Il mangiatore di maccaroni è sempre disposto a cibarsene, e v'ha taluni i quali ne mangiano
per colazione, per pranzo e per cena, ma invano si cercherebbe un uomo del volgo che mangiasse maccaroni sul cadavere dell'estinto come Orazio Vernet osava segnare nelle sue illustrazioni artistiche alla vita di Napoleone.
Questa passione indomita per un cibo cotanto semplice, potrà essere per i napoletani occasione di piacevole
scherzo, ma non mai di vituperio o di orrore.
Questo gustoso saggio, che anticipa a grandi linee la cultura e la filosofia sociale dei maccheroni del popolo napoletano, dice chiaramente che a quell'epoca, prima della grande diffusione popolare del pomodoro, i maccheroni fossero conditi semplicemente con formaggio grattuggiato e pepe senza alcun altro grasso. Il cacio bianco in polvere che cita il saggio è proprio il prodotto pulvurulento che si ottiene dal grattuggiamente delle scorze secche di caciocavallo.
Saluti a tutti
Giampaolo
oggi ho avuto occasione di leggere un topic dedicato ai maccheroni cacio e pepe nel quale si discettava su quali fossero i maccheroni più adatti e su quale fosse la ricetta più corretta.
Quelli che discettavano di più erano gli amici coquinari romani ritenendo tal piatto appartenere alla tradizione culinaria romana.
Mi spiace dover dare una delusione agli amici romani, ma i maccheroni cacio e pepe non sono affatto una ricetta della tradizione romana , ma sono una ricetta tipicamente napoletana, nata nella capitale della Campania quando ancora i maccheroni a Roma erano molto poco diffusi, in quando gravati da una imposta doganale molto per puri giochi politici fra le gerarchie ecclesiastiche e l'amministrazione borbonica.
A Roma a quell'epoca, mi riferisco alla prima metà del diciannovesimo secolo, erano solo diffuse le fettuccine fatte in casa con farina di grano tenero e uova.
I maccherono cacio e pepe, invece sono una invenzione popolare della cucina napoletana risalente fra il diciassetesimo ed il diciottesimo secolo, quando, per sfamare la accresciuta popolazione, la amministrazione borbonica introdusse a Napoli il consumo dei maccheroni che precedentemente erano diffusi solo in Sicilia. Fu in quell'epoca che il popolo napoletano si trasformà da mangiafoglie a mangiamaccheroni, relegando alle sole mense dei ricchi il precedente piatto principale: il pignato grasso.
Anche l'interpretazione del termine cacio è differente.
I romani ritengono generalmente che cacio sia un sostantivo derivante dalla contrazione del sostantivo caciotta e come tale rappresentativo della caciotta tipica locale di pecorino; il termine cacio invece, riferito alla tradizione napoletana, è una contrazione della parola caciocavallo, il tipico formaggio campano a pasta filata che normalmente si consumava tal quale, ma del quale si riutilizzavano le croste dure sui maccaroni grattuggiandole.
Giacchè queste mie affermazioni, potrebbero suscitare scandalo fra i romani e, magari, potrei essere accusato di scarsa veridicità , voglio corroborare le mie affermazioni riportando un testo letterario dell'epoca.
Il testo del quale metterà di seguito uno stralcio è un articolo dello scrittore storiografo naopletano Carlo Tito Dal Bono che verso la metà del 1800 scrisse un saggio intitolato "La taverna" che fu poi pubblicato nel 1866 nella grande opera "Usi e costumi di Napoli e Contorni" diretto ed edito a cura del letterato napoletano Francesco De Bochard .
Il saggio descrive le taverne pubbliche napoletane dove all'epoca si distribuiva la pasta al popolo.
Eccone uno stralcio
In sul limitare della taverna, e talvolta schierata in bella ordinanza sul davanti di essa, vedesi una falange di
piccoli focolari o fornelli di terra e mattoni, ove si innalzano caldaie, si muovono padelle, si scoperchiano
"pignatte".
I maccheroni, e chi nol sa? sono la forma onde lo straniero contrassegnava la plebe napoletana. La fabbricazione
de' celebri maccaroni napoletani, è fatta la più volte in siti di buon aria. Offrono le migliori fabbriche
Portici, lungo la linea di Napoli, le cui Torri, famose per istorica ricordanza, erette per difesa ai nostri lidi, e
la incantevole Costiera Amalfitana; ma celebratissima come il suo vino è la pasta di Gragnano e fra tutti, per la
loro proporzione cilindrica, sono reputati i maccheroni della 'Zita....
Alla comun maniera di fabbricare tal pasta, si è unita oggi la macchina idraulica e, fra i seguaci dell'uno e
dell'altro sistema, si eccita già una maccaronica emulazione. Pregio di questo lavorio è non pur la bianchezza che non sempre è visibile e con taluni procedimenti si manifesta nell'acqua da cuocere, ma pregio singolare è la finezza della pasta, la larghezza dell'orificio, il sapore che non senta troppo la semola; la qualità delle acque e il clima rendono i nostri maccheroni di squisito sapore, e quante volte in altri paesi d'Italia si è tentato di
raggiungerela perfezione, ragioni indipendenti dalla volontà del lavorante ne hanno impedito il miglioramento.
Prova ne sia che a Roma, ove la pasta napoletana è soggetta a grave dazio, si mangiano maccaroni e paste ove sono introdotte le uova, e Firenze, o per meglio dir la Toscana, usa come i nostri maccheroni i suoi cannelloni i quali somigliano ai nostri.
Cibo sano, facile a satollare, non costoso, semplice, il napoletano ne trae miglior effetto che non la polenta. Le
consuetudini delle ricche mense han dato a questo cibo svariati condimenti, ma il napoletano li mangia più spesso
col semplice formaggio bianco. Perà di lato alla ampia e fumante caldaia maccaronese, è un ampio piatto, bacile o
scafarea di bianco formaggio, nuova piramide d'Egitto, ornata dalla punta alla base da strisce nere fatte col
pepe, e sul culmine della quale spesso è posato un pomodoro o, in mancanza di questo, un fiore rosso.
Sopravveglia e provvede alla somministrazione il tavernaio, uomo le più volte non giovane, e però savio
dispensatore, le più volte rubicondo e paffuto, sferico dall'ombellico in giù, il quale come nel piatto
distribuisce i caldi maccheroni e di una mano si vale a reggerlo, l'altra pone sulla piramide del formaggio, e di
quella, non dannosa polvere, sparge i maccheroni.
Intorno a lui son monelli, uomini che hanno da fare tanto da non aver tempo di sedere, donne che fan presente di
una scudellina così composta ai loro piccin, poveri per i quali l'obolo della carità si tramuta in maccaroni.
Talvolta poi dopo il formaggio i maccaroni si tingono di color purpureoo paonazzo, quando cioè il tavernario del
sugo di pomodoro o di ragù (specie di stufato), copre quasi rugiada sui fiori, la polvere del formaggio e l'avvolgimento de' serpeggianti vermicelli o maccaroncelli.
La equità del tavernaio merita di andare in proverbio: egli è attento innanzitutto a sè;di rado il popolo si
appella a lui per ingiustizia, egli è uomo imparziale e il grano o il tornese sono rappresentati dalle sue mani. A
dir corto, egli ha nelle mani la squadra, le seste negli occhi e, se taluna volta si lascia corrompere sino ad
accodare uno o due maccheroni di più, è soltanto per amor di una piccina. La donna con i suoi vezzi e le sue ciance,
il bravo minaccioso col suo bastone, il rissaiolo pronto ad attaccare brighe, non lo seducono nè lo spaventano.
Egli è impassibile innanzi al suo dovere, e senza essere un geometra, un algebrista, ovvero un cosiddetto
contabile, egli ha la cifra dei maccheroni con sè, e conosce senza eccezioni la difficile operazione del dividere.
Ma se il tavernaro è giusto dispensatore, il mangiator di maccheroni non è già colui che lo applauda di tanta
equità . Il vero mangiamaccaroni è sempre un essere eccezionale, il quale non gusta eminentente che quel cibo solo, e di ogni altro si fastidisce. Egli grida morte ai Vatel, fa guerra agli intingoli, bestemmia i brodi. Come taluni
uomini crederebbero trovarsi in punto di morte, se vedessero comparirsi innanzi la persona del medico, il
mangiamaccaroni crederebbe di essere in bivio di perdere la vita, se si vedesse presentare una scodella di brodo.
Egli rispetta i maccaroni, o i vermicelli al parmigiano, ma onora quelli avvoltolati di cacio calabro, o bianco, si
diletta del sugo della carne, ma l'acre pomodoro lo alletta forse in pari modo e dove mancassero l'uno e l'altra si
attiene alla netta semplicità di puro cacio. Il mangiatore del volgo si fa forchetta di due dita, solleva i
maccaroni o i vermicelli mezzo palmo sopra la bocca, e poi facendo un lieve movimento di girazione spirale ve li
caccia dentro, con una destrezza che rivela la pratica, senza mai sporcarsi. Se il mangiatore è gentiluomo, esegue
con la forchetta un movimento di girazione nel piatto e vi raccoglie i vermicelli o i piccoli maccaroni e li
tracanna rapidamente. Il mangiatore di maccaroni è sempre disposto a cibarsene, e v'ha taluni i quali ne mangiano
per colazione, per pranzo e per cena, ma invano si cercherebbe un uomo del volgo che mangiasse maccaroni sul cadavere dell'estinto come Orazio Vernet osava segnare nelle sue illustrazioni artistiche alla vita di Napoleone.
Questa passione indomita per un cibo cotanto semplice, potrà essere per i napoletani occasione di piacevole
scherzo, ma non mai di vituperio o di orrore.
Questo gustoso saggio, che anticipa a grandi linee la cultura e la filosofia sociale dei maccheroni del popolo napoletano, dice chiaramente che a quell'epoca, prima della grande diffusione popolare del pomodoro, i maccheroni fossero conditi semplicemente con formaggio grattuggiato e pepe senza alcun altro grasso. Il cacio bianco in polvere che cita il saggio è proprio il prodotto pulvurulento che si ottiene dal grattuggiamente delle scorze secche di caciocavallo.
Saluti a tutti
Giampaolo
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