di Enzo Raspolli

LA STORIA SEMISERIA DELLA CUCINA ITALIANA.

Capitolo 3. La croce e il soldato

Finito il culturale, passiamo al ricreativo.
Questa volta invece della sgangherata storia della gastronomia riflettiamo su un aneddoto, sempre relativo al periodo in esame.
Siamo infatti proprio allo scadere del 33 d.c. E questi sono gli esiti attuali di quell’evento.
Alla Santa Sede
Oggetto: Giustizia per mio nonno.

Ricordarsi come si chiamava è un problema; neppure mia nonna lo ricordava.
Certo è che sapere come si chiamava uno che nel 33 d.c. faceva il soldato romano in Palestina non è facile.
Anche le Sacre Scritture che, come poi dirò, lo descrivono, non dicono come si chiamasse. Ma basta dire che fu quello che porse al Cristo morente sulla croce la spugna imbevuta di acqua e aceto e tutti lo ricordano.
Ma certamente io sono uno degli ultimi discendenti di quell’oscuro milite, mandato laggiù a far da guardia ai crocifissi, ai disgraziati che il Sinedrio decise di mandare a morte.
Ed è proprio come discendente di quest’uomo, che ora non può difendersi, e che ha avuto contro la potenza culturale della Chiesa, che oggi chiedo giustizia.
Di questo mio avo, sfortunato e denigrato, io voglio prendere le difese, per lui alzerò la mia flebile voce.
Ecco, dicono che pose una spugna su una pertica, la bagnò con acqua ed aceto e la porse ai condannati, e la Chiesa ha sempre detto che questo fu un gesto di scherno, di disprezzo, di offesa.
No, ecco il punto, no, fu un gesto di umana solidarietà, o se vogliamo essere riduttivi, di banale servizio.
Cosa bevevano i nostri comuni avi in quel periodo. Da qui partiamo.
Si fa presto a dire acqua, ma ne morivano più per l’acqua inquinata che per la fame, soprattutto di bambini e di persone indebolite.
Senza la minima cognizione di batteriologia, con quel caldo dannato, bere l’acqua raccolta nei pochi fiumi, nei pozzi stagnanti era una scommessa con la morte o almeno con una gastroenterite dannata.
Allora per non morire di sete o di malattie si erano cercate soluzioni empiriche.
La birra era già stata inventata dagli egiziani, e nella fermentazione prima e nella presenza di alcool dopo, si trovava la salvezza dai batteri ed un gusto gradevole. Ma la birra costava. Molto. Solo nel palazzo del potere ne scorreva a fiumi, ma non arrivava su quel monte arido, maledetto ed assolato.
Sul Golgota non c’era birra a disposizione.
E neppure il vino, quel vino prodotto da ormai un millennio e trasformato in una sostanza appiccicosa e densa, da diluire con acque aromatizzate durante i simposi e da bere tutti insieme.
Anche quella era una bevanda da ricchi, da uomini liberi, che potevano permettersi di avere il cratere in cui mescere vino ed acque profumate. Ma su quel maledetto monte non c’erano anfore di vino, crateri ed acque di rosa.

C’era sole, tanto sole, tre disgraziati che morivano dissanguati ed una piccola folla di uomini impietriti e di donne urlanti.
C’era invece una bevanda, quella più normale, più banale. C’era acqua ed aceto, un aceto da poco, giusto utile per disinfettare quell’acqua che da sola poteva essere un veicolo di morte.
Quell’aceto, aspro, sgradevole fin che si vuole, era lo strumento per non morire.
Ed a quella bevanda il soldato aveva attinto più volte per se stesso, sognando la fine del turno ed il suo ritorno in caserma, dove avrebbe trovato un po’ di birra da poco prezzo, messa a rinfrescare in un otre dentro il pozzo.
Ed in quello stesso vaso di acqua ed aceto il soldato, quel mio lontano nonno, intinse la spugna che porse al Cristo morente.
E bevve, quello che al soldato appariva come un delinquente esaltato di quella lontana provincia, che parlava una lingua sconosciuta, tra quella gente ostile e chiusa, bevve.
E forse ebbe un attimo di ristoro nella sua pena.
Certo lo ebbe nel suo cuore vedendo un soldato invasore, un uomo di Cesare, che non lo capiva, che non lo conosceva, porgergli un po’ della sua bevanda, nel caldo umido ed appiccicoso di quella giornata, con il cielo che andava addensandosi di nubi terribili.
In nome di quella giustizia che dite irradiarsi dalla Croce ora vi chiedo un atto di buona volontà:
Fatelo santo.
Si santo, perché fece un gesto di pura umanità, senza neppure immaginare che quell’uomo emaciato fosse il Potente.
Santo perché ha patito per secoli l’offesa infamante di aver voluto schernire il Figlio.
Santo per riparare ad un torto storico.
Un errore enologico, si dirà, una ignoranza di tipo alimentare.
E no! Qui c’è dolo, perché la storia delle bevande era pur nota ai Padri della Chiesa.
Ma nell’ultimo secolo si è scoperta la trasmissione delle malattie e l’acqua è più o meno potabile, il vino accessibile, la birra diffusa.
E non si usa più mescolare acqua ed aceto. Se ne è persa la memoria.
Ed allora dagli addosso, sputa su quel povero soldato, denigra, offendi.
Per questo voglio giustizia, per la cattiveria voluta, per l’arroganza, per il mio vecchio nonno che con leggerezza fece un gesto normale.
Lo hanno crocifisso alla storia. Povero nonno.
E nel nome di quell’Altro crocefisso, che forse aveva accennato ad un sorriso di gratitudine quando la spugna bagnata gli sfiorò le labbra.
Non c’era bisogno, nessun bisogno, di denigrare mio nonno per esaltare la gloria ed il patimento del Cristo.
Rimango in attesa e porgo i miei più distinti saluti.