di Giuliana.

Se torno per un attimo indietro, rivedo una piccola stanza, una grande finestra con la griglia e un ampio davanzale interno dove stavo comodamente seduta a guardare fuori.
Mi piaceva stare in contemplazione, lo sguardo spaziava dal cielo alle case sulle ringhiere, al cortile interno. Quel piccolo cortile era come un posto magico, solo mio. Da sola in quella grande casa piena di bambini. Che non potevano scendere a giocare in cortile, non era permesso. Solo io avevo il pieno possesso di quell’angolino. Dal mio punto di osservazione potevo vedere quasi tutti i piccoli appartamenti sull’ala destra delle ringhiere, cinque piani sempre animati da un movimento e da una vita che oggi sembra lontanissima. Normalmente erano solo due stanze che si aprivano sulla ringhiera, e al cui interno un piccolo stanzino con w.c. fungeva da servizio, i bagni veri e propri sarebbero venuti più tardi.
Conoscevo tutti, visto che ero la figlia della portiera, e vivevo immersa un piccolo universo variegato e rumoroso che riempiva le giornate con voci gridate, canzoni cantate a squarciagola, ritmiche battiture di materassi la mattina, apparecchi radio a tutto volume il pomeriggio, e nel corso della giornata un continuo spandersi di profumi di cucina, scendendo le scale sentivi il profumo del ragù al quarto piano, a casa Tolusso oggi pastasciutta, e quello della trippa al piano sotto, la signora Pilone è stranamente in cucina, al secondo piano il minestrone copriva tutti gli altri odori, era la signora Bellenghi, una nonnina molto anziana che viveva sola, per lei minestra mattina e sera. Ogni tanto il grammofono del signor Giussani, che lavorava come contabile alla Voce del padrone, spandeva nell’aria romanze d’opera. Era un fortunato lui, possedeva quel bellissimo grammofono a tromba ed è stato per tanto tempo il solo ad avere un televisore in tutto il palazzo.

© Giuliana
Una vita in comunità, gomito a gomito divisi da una tramezza. Si sapeva tutto di tutti, ci si aiutava, ci si sosteneva, si era solidali.
Certo non era tutto rose e fiori, i litigi avvenivano ogni tanto, alcuni non si parlavano più, altri si guardavano in cagnesco, ma nell’insieme c’era un forte senso di solidarietà e nel momento del bisogno sapevi che potevi contare sull’aiuto di tutti.

Ma il momento più bello arrivava a Natale. Non c’era usanza di fare alberi di Natale nei giardini, né di mettere luminarie. Erano Natali un po’ in sordina, i momenti non erano dei migliori e la gente non aveva soldi. Non ricordo se ci fosse già la tredicesima, non lo so, ma credo di sì, anche se non nella forma che conosciamo oggi. Ricordo che mia madre, sotto Natale, parlava di gratifica. Certo non si spendevano soldi in regali inutili né ci si faceva prendere dal consumismo, i bisogni erano altri. Anche il clima era diverso, faceva molto più freddo e la neve arrivava presto e rimaneva per giorni e giorni. Era l’unico momento in cui ai bambini del palazzo era consentito scendere a fare il pupazzo, e poi si finiva sempre col fare a palle di neve fino a ridurci bagnati fino all’osso.

Il Natale dicevo, nei negozi comparivano cose tipicamente natalizie e stagionali (niente pomodori o zucchine in inverno), tipo lo zampone, o il mascarpone; di solito veniva venduto sfuso, tal quale, ma a Natale era montato come una mousse, sembrava spremuto con la sac à poche in enormi volute, una montagna di mascarpone bianchissimo e sofficissimo che ti faceva venire voglia di infilarci un dito, la mostarda non mancava mai, dentro a piccole tinozze di legno chiaro faceva bella mostra nei banchi delle Fattorie Prealpine, e improvvisamente comparivano numerose anitre, oche e faraone, e i capponi penzolavano appesi alla rastrelliera dietro il banco. Il tacchino no, è venuta dopo l’usanza.
Grandi vassoi di insalata russa in forma e gelatina, tranci di paté in bellavista e formaggi strani (per quel tempo) tipo il Panerone o la forma grande di grana lodigiano troneggiavano nei negozi di alimentari. La decorazione del bancone era sempre fatta con tralci di alloro, alle volte con agrifoglio, ma più di rado.
Il panettone si comprava direttamente allo stabilimento dell’Alemagna, che era poco distante. Naturalmente quello uscito storto, con qualche pecca. Lo spaccio li vendeva per poche lire. Ricordo il profumo di burro e canditi che aleggiavano dentro a quella stanza, ne uscivi inebriato con i vestiti impregnati di quel profumo. La produzione era quasi sempre in vicinanze del Natale, non mesi prima come ora. Era fragrante e burroso, mi pareva molto più buono di adesso.

La festa era completa quando arrivavano gli zampognari. Ogni Natale li aspettavamo chiedendoci quando sarebbero arrivati. A pensarci ora erano povera gente che approfittava delle feste per guadagnare qualcosa, arrivavano dal Lazio, giravano per tutte le vie della città entrando in tutti portoni e mettendosi a suonare nel mezzo dei cortili interni. La gente si affacciava e lanciava delle monete dalle ringhiere e io, a riparo del mio osservatorio, stavo a guardarli un po’ affascinata ma anche un po’ intimorita dal loro vestiario. Erano figure alle quali non eravamo abituati, gente che veniva da una realtà completamente diversa dalla nostra. Avevano le cioce, il gilet di vello di pecora, cappellacci a tesa larga, e a coprire tutto un mantello a ruota di colore indefinito. Finito di suonare, uno di loro raccoglieva il magro incasso e se ne andavano. Quel canto dolce e malinconico di zampogne sottolineava l’atmosfera natalizia e in seguito non sarebbe stato più lo stesso senza di loro.

I regali….praticamente erano fatti di piccole cose, un libro, un paio di guanti, un paio di calzettoni…. A casa mia soldi pochi e mia madre faceva quello che poteva per farmi trovare un pacchetto la mattina di Natale. La signorina Barbolini viveva sola, non si era mai sposata dopo aver perso il fidanzato nella prima guerra, e aveva ormai passato la cinquantina; lei mi regalava sempre libri, bellissimi libri di avventure tipo 20.000 leghe sotto i mari, oppure La storia di Cosa Cosetta, o ancora Capitani coraggiosi. E la mia fantasia volava ogni volta, so che devo a lei l’amore che ho per i libri e le sarà sempre grata per questo. Aspettavo sempre il suo regalo con la certezza che fosse un libro, e ne pregustavo la lettura, anche senza sapere che tipo di libro sarebbe arrivato.
Quando mi sono sposata, lei era ormai molto anziana e viveva in casa di riposo, mi ha mandato un regalo che ho ancora dopo quasi quarant’anni, riposto a riparo in una scatola, per poter conservare il suo ricordo. Una coppia di angeli di porcellana bisquit. Bellissimi. Ogni tanto li guardo, i ricordi riaffiorano e la signorina Barbolini mi fa di nuovo compagnia per qualche attimo.

Il regalo invece che ricordo con un sentimento misto di tenerezza e tristezza, erano i mandarini che mia madre nascondeva nei calzettoni per farmeli trovare. Un frutto che compravamo abbastanza di rado allora, perlomeno noi che avevamo ben poco, si mangiavano solo nei giorni di festa. E poi si mettevano le bucce sulla stufa, per profumare la casa. Non esistevano ancora i mandaranci e i semi erano la normalità. I mandarini di Via Correggio, profumi, colori e visi di persone che non ci sono più, ma che per un attimo lungo 10 anni hanno condiviso la mia vita, e che fanno parte dei miei ricordi. I mandarini volevano dire Natale, odore di inverno, di neve, di carbone per la stufa, di panni bagnati messi ad asciugare vicino ad essa, luci e ombre di un tempo che non tornerà più.

Quei mandarini me li ricordo sempre, col loro colore acceso e il loro profumo. A pensarci bene, ancora oggi, per me, non è Natale senza mandarini in casa.