di Arien2 (francesca)

Banana Yoshimoto, Kitchen, 1988 – 1991 Feltrinelli

Difficile per me pensare una serie di recensioni di libri di, su, con, attraverso, intorno la cucina senza passare da questo.
L’incontro con questo libretto di poco meno di 150 pagine è stata la porta verso un mondo di sapori e di cultura letteraria e culinaria che solo qualche anno fa nemmeno consideravo ed è stata la spinta ad approfondire, conoscere e finalmente viaggiare fin là, in quel Giappone lontano e affascinante.

“Kitchen” è uno dei primi, se non il primo, libro di Banana Yoshimoto tradotto in italiano; ha avuto il merito di farla conoscere ad un pubblico che, diversamente, difficilmente le si sarebbe avvicinato.
La vicenda ruota intorno alla cucina, anzi, alle cucine che la protagonista, Mikage, frequenta: si parte dalla cucina della casa in cui vive con la nonna (la cui dipartita apre la narrazione), per poi incontrare quella della casa di Yuichi, il giovane che la accoglierà dopo il lutto, passando per le cucine che Mikage incontra grazie al suo lavoro, assistente di una maestra di cucina. Il loro rapporto crescerà attraversando momenti dolorosi e rinascite, suggellate da piatti consumati insieme; non è un libro di cucina, ma permette di immergersi nell’intimo della cucina giapponese come se fosse di casa anche per noi, facendoci assaporare il calore e il gusto di tè, katsudon, ramen e udon.
La cucina diventa il luogo in cui si sublimano i sentimenti e le emozioni, un non-luogo che esiste da nessuna parte e allo stesso tempo dappertutto, poiché non conta dove siamo ma quello che stiamo condividendo e soprattutto le persone con cui e per cui cuciniamo, con cui mangiamo. I gesti accurati e misurati, l’attenzione nel preparare e nello studiare le basi dell’arte della cucina sono il percorso per una nuova vita, per aprirsi ancora al mondo nonostante il passato sia stato ostile e complesso.

Dal testo:

“Era meglio muoversi. Sembrava che la cucina non venisse usata da tempo. Era un po’ sporca e impolverata. Cominciai col fare pulizia. Strofinai bene il lavello con il detersivo in polvere, ripulii il fornello, lavai i piatti del forno a microonde, affilai i coltelli. Lavai tutti gli strofinacci con la varechina, poi li misi nell’asciugatrice, e mentre li guardavo ruotare senza interruzione, mi accorsi che finalmente mi ero un po’ calmata. Perché amo quanto ha a che fare con la cucina fino a questo punto? È strano. Per me è come trovare un’aspirazione lontana, incisa nella memoria dello spirito. Stando in piedi al centro di una cucina tutto ricomincia da capo e qualcosa ritorna”.