di Enzo Raspolli

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Storia Semiseria

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La rivoluzione in anticipo

Noi, che si vive oggi e che modestamente abbiamo studiato, si sa che alla fine del 700 arriverà la Rivoluzione, ma quelli che vissero prima mica lo sapevano.
Il Re, la corte e nobiltà cantando, non si immaginavano di avere la mannaia sul collo.
E la rivoluzione la incominciarono loro, a tavola. Intanto cambiando gli orari dei pasti.
Da secoli si consumavano due pasti. Il primo dopo la messa, per rompere il digiuno che era indispensabile per la Comunione.
Ma per questo pasto erano sufficienti gli avanzi

del giorno precedente, di cui si faceva raccolta (la “collation” da cui ……………).
Verso le 5 del pomeriggio poi il pasto principale, il “diner”.
Ma, appunto nel ‘700, l'usanza diffusissima tra la nobiltà e l'alta borghesia del cioccolato, del caffè e del te, introdusse l'uso di una piccola colazione e sopratutto dopo i divertimenti serali venne di moda una cena che venne dapprima chiamata, alla spagnola, “medianoche” e poi “souper” che in breve diviene un pasto di gala, con tanto di arrosti, pesci ecc.

Arriva il trionfo delle salse e delle creme, e dei gelati.
I cuochi hanno una disponibilità infinita di panna, frutto anche dell'aumento esponenziale dei bovini dopo che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, possono ora pascolare nelle foraggere che interrompono il ciclo granario nelle campagne.
Arrivano i gelati, fatti appunto con panna ed uova e profumati al caffè, alla cioccolata, alla vaniglia e la Marchesa di Pompadur volteggia tra i tavoli dove si beve quasi esclusivamente un vino che viene dalla Champagne. (bellina, questa qui del volteggio, no?)
Arriva anche, dalle Baleari, una salsa nuova. I francesi dicono che l'ha inventata il cuoco del Duca di Richelieu durante l'assedio di Port Mahon e per questo le ha dato il nome di maionese.
Gli spagnoli smentiscono e dicono di aver ritrovato la ricetta, in versi, della salsa datata nel 600.

Comunque è fuor di dubbio che dal 600 e soprattutto durante il ‘700 la cucina francese diventa la cucina-guida.
Direbbe uno che conosco io, che conquista l'egemonia in Europa.
Il servizio è però ancora quello “antico” e cioè con vassoi elaboratissimi ma con piatti in cui mangiavano più persone, tanto che i trattati di buone maniere si arrampicano sugli specchi a dare indicazioni adeguate, come quella di non ciucciarsi le dita prima di prendere il cibo comune dal piatto.
Solo in Italia, che per tanti aspetti va maluccio, è diffuso l'uso della forchetta.
Il piatto individuale, con tutto il cambiamento del servizio, che verrà detto “alla russa” arriverà con il nuovo secolo.
Si diceva che in Italia andava maluccio. Aveva perso la guida del gusto perché era decaduta sul piano economico.
Non si contava un tubo, insomma, e ci risiamo.
I traffici ricchi erano nell'Atlantico, i grandi regni erano in tutto l'altrove mentre qui erano solo staterelli con i dazi ogni 20 chilometri.

E allora diamogli un'occhiata a questa Italietta che ancora non c'è.
A Firenze i Medici sono agli sgoccioli, Gian Gastone, che è l'ultimo e non lo sa, prendeva delle ciucche tremende “ non solo di vino ma di altri potenti liquori, e di un rosolio potentissimo, mischiando il tutto con droghe e zucchero”.
Ora a me mi fa ridere quello zucchero, messo li, tra le dissipatezze.
I compari del Gian Gaston bivaccavano nella Reggia ridotta ad un letamaio, assaltavano i negozi vicini, finchè i fiorentini e le grandi potenze decisero di darci un taglio e nel 1731 arrivò l'infante Don Carlos che anche lui si mise a fare casino ed infine venne issata sul trono la famiglia Lorena.
Merita riferire che dalla Spagna l'infante portò un dono prezioso: dodici casse di cioccolata purissima e dodici barili di vino liquoroso.
Pietro Leopoldo, di cognome Lorena, rimise un po' di ordine, iniziò a sorvegliare i prezzi dei mercati e riattivò la panificazione tra i ben 466 fornai di una Firenze di 80.000 persone.
E poi non diciamo che il pane non fosse il cibo principale!
A Napoli il Re celebrava, per “real clemenza” ogni anno la “festa della Rosa” nel Palazzo Belvedere, durante le nozze collettive dei popolani.
Ed era Lui a pagare il pranzo; di uno di questi si conosce anche il menù “ad ognuno, toccarono maccheroni, due braciole imbottite, un pezzo di ragù, mezza pollanca e una fetta di pizza”.
Urca, direbbe Uccio.
Anche a Venezia in 4 cerimonie annuali si dava un pranzo a cui partecipavano i reggenti della repubblica, gli ambasciatori (che dovevano portarsi la cassetta delle posate personali) ma anche 100 arsenalotti con le loro famiglie.
Magari a loro toccavano le stoviglie un po' peggio, ma mangiavano come signori.
Le 4 feste erano il 25 Aprile, San Marco e Festa della Repubblica (della Resistenza sarà dopo), il 15 Giugno, San Vito e Modesto (il mio compleanno sarà dopo), il 40° giorno dopo Pasqua e la “Sansa” ossia l'ascensione.
Di Milano abbiamo i ricordi di Pietro Verri, che parlando del periodo natalizio dice “ si usavano in quei giorni dei pani grandi, e si ponevano sulla mensa ceci, anatre e carni di maiale".
I pani grandi erano i panettoni? Mistero.
Ed i ceci insieme al maiale sono l'anticipazione della “tempia e ceci”? Anche qui mistero.
Della Sicilia abbiamo notizie da uno dei viaggiatori che nel ‘700 iniziarono la moda del “gran tour” in Italia.
Lo scozzese Patrick Brydone ci narra di una Sicilia accogliente, aperta, emancipata. Riferisce di pranzi pantagruelici di più di cento portate ed anche di piatti un po' strani, o almeno non “tradizionali” come il patè di fegato, le murene (che sarebbero inviate da Palermo in tutte le corti) e del “ponce” che oggi è una specialità livornese.
Ma riferisce anche dei gelati, diffusissimi in tutta la Sicilia, anche nelle campagne, fatti utilizzando per refrigerare la neve dell'Etna, e di tali gelati è entusiasta.
In effetti cuochi palermitani avevano avuto un successo incredibile anche a Parigi con queste preparazioni.
Ma Brydone, per primo, riferisce di una coltivazione di pomodori. Anno 1770.
Nel 1712 esce a Bologna un foglio che anche oggi è molto ricercato. Si tratta di una grande tavola a stampa in cui sono indicate tutte le trattorie di Bologna, ciascuna con la propria specialità.
Si tratta del “Gioco nuovo di tutte le osterie che sono in Bologna, con le sue insegne e le sue strade; qual è quasi simile a quello dell'ocha; e tutti i giocatori potranno farsi una buona cena, se haveranno denari”
Il fatto di aver citato i piatti migliori di ciascuna trattoria, nelle 59 caselle del gioco, ci da uno spaccato esauriente della cucina bolognese del ‘700.
I piatti citati vanno dal pane e vino, ottimi nell'osteria del Palazzo d'Accursio al “tutto buono” del Leon d'Oro.
Ma nel mezzo ci sono “buona mortadella” (ma forse è un bidone di Igor Marini) ed ancora “buona salciccia” ai Due Angioli, i “tortelli” della trattoria Il Melone, ai “tartufi” della Barchetta del Pavaglione.
E ci sono anche “buoni gattinazzi” ai 4 Pellegrini.

Insomma questo 700 si presenta come il secolo della svolta.
Mentre in salotto si pensa e poi si scrive l'Enciclopedia, in cucina la rivoluzione è già incominciata.
Poi verso la fine del secolo tutta la baracca va fuori strada e la rivoluzione arriva davvero, ma prima ne succedono tante altre.
Non cambiate canale.