di Enzo

LA CUCINA MEZZADRILE (terza parte)
Queste quattro chiacchiere che state leggendo hanno avuto origine, come abbiamo detto, da un corso di formazione professionale per ristoratori e le ricette che seguono dalla cena di fine corso organizzata in pieno inverno e onorata dal grande Fulvio Pierangelini del Gambero Rosso.
E’ stata una cena in cui sono stati presentati alcuni piatti provati durante le lezioni ed altri pensati per l’occasione; si è trattato di assaggi, elaborazioni ancora da perfezionare e da affinare, ma nel contempo degli esempi di una interpretazione creativa della nostra tradizione.
Non si tratta di riproporre le cosiddette ricette rustiche, ma del tentativo di accostare alcuni ingredienti freschi e tipici della stagione invernale.
Ripetiamo qui, tra varie dissertazioni, le ricette che abbiamo presentato soprattutto come esempio dei mille modi in cui si possono accostare gli ingredienti, ma molte altre varianti sarebbero state possibili e soprattutto molte altre materie prime sono state utilizzate durante il corso e non hanno trovato posto nella cena finale ma potranno essere ritrovate nei ristoranti che hanno partecipato all’aggiornamento.
Dalla nostra terra abbiamo preso ortaggi e profumi, sapori e preparazioni, dal mare i pesci poveri e dai cortili le anatre.
Poi ciascun ristoratore ci mette del suo e quindi avremo accostamenti più vicini alla tradizione, altri più inusuali ma sempre con un processo che parte dal disponibile per arrivare alla ricetta.
Le nostre preparazioni assomigliano molto al paesaggio della toscana mezzadrile; un paesaggio lavorato, in cui anche la “macchia” si inserisce come elemento umanizzato ed utile ma nello stesso tempo un paesaggio di commovente semplicità. Per gli antipasti abbiano naturalmente escluso i salumi che, mutuati da una tradizione piemontese, sembrano essere diventati “caratteristici” delle maremme, ma in realtà di caratteristico spesso c’è solo l’ignoranza di chi si improvvisa ristoratore.
I salumi venivano usati solo durante la colazione delle 9-10 di mattina, dopo diverse ore di lavoro, oppure la sera per rimpinguare una cena modesta e comunque solo a fine pranzo.
Il che è anche intelligente perché i salumi all’inizio pranzo sono difficilmente digeribili e soffocano i sapori dei piatti successivi. Ma tant’è, ed oggi in qualsiasi ristorante di media ignoranza si trovano tra gli antipasti “di terra” i fatali “salumi nostrali” quando non anche bresaola o salame ungherese.
I crostini erano il vero ed unico antipasto mezzadrile.
Nella cucina mezzadrile si usava come base dei crostini il pane raffermo o arrostito, ma siccome con il pane zeppo e pesante che si faceva in casa, ne venivano fuori delle fette pericolose per il popolo degli sdentati che costituiva la maggioranza della popolazione mezzadrile, le fette si bagnavano nel brodo.
Bocca e portafoglio sono collegate nel senso che mancando denaro mancano anche denti perché non fanno in tempo a nascere che iniziano a cadere, quasi volessero fuggire la miseria.
E la condizione della mezzadria nel pieno della sua miseria era questa e quindi niente crostini duri.
Invece di bagnare con brodo noi preferiamo però utilizzare il pane leggero di oggi, magari quello di forma cilindrica che dà dei dischetti di 3-4 cm. di diametro che passati dal forno per una leggera doratura sono friabili e croccanti.
Anzi, per evitare che il pane si ammosci per l’azione della salsa preferiamo servire in tavola un vassoio di pane arrostito e, separatamente, dei vasetti con le salse.
Anche se non utilizzate nella cena di fine corso vogliamo dare conto di alcune salse per crostini.

Prima di tutto una salsa “storica” di origine senese fatta con pecorino toscano, la crema di pecorino all’uso senese.
Poi possiamo preparare una crema di erbe profumate usando come base della ricotta.
Passiamo poi al Patè di fegato di *** al profumo di ***
E poi un patè di giallarelli
Veniamo ora ad una preparazione che si avvicina di più a quelle tradizionali, i crostini alla salsa di piccione con profumo.
Ora andiamo con un piatto presentato alla famosa cena di fine corso; si tratta di crostini e carpaccio di triglie all’aceto di melagrana
Andiamo poi con una verdura, che mettiamo all’inizio del pranzo come giustamente facevano gli antichi, sia per gustare meglio i sapori tenui sia per aumentare la digeribilità della cena. Si può infatti pensare a delle portate di verdura cotta all’inizio pranzo, rifiutando la sequenza antipasto, primo, secondo frutta dolce che è poi una invenzione recente dei nostri pranzi. Infatti nella cucina di corte i piatti erano divisi tra quelli di credenza e di portata e nella cucina mezzadrile più semplicemente tra piatti pieni e vuoti e quelli pieni erano soprattutto piatti unici. Noi abbiamo presentato uno sformato di porri e ricotta
Continuiamo con un piatto di verdura che apre davvero lo stomaco e la mente: si tratta della insalata di arance e foglie di maggiorana.
Dovremmo ora passare ai primi, ma abbiamo già visto che questa decisione può essere messa in discussione ed allora riflettiamo sul fatto che nella cucina mezzadrile la pasta secca “compra” è entrata solo nel secondo dopoguerra. Le sole paste conosciute dal mondo mezzadrile erano quelle fatte in casa, con farina di grano tenero e uova, tirate con i mattarelli e di cui si utilizzavano anche gli scarti ed i bricioli (maltagliati e briciolelli). Non a caso “il Cibreo” di Firenze che interpreta al meglio la nostra cucina, non serve mai pastasciutte ma zuppe e polente.
Le zuppe rappresentano l’uso più geniale del pane secco, di un avanzo quindi e poi di verdure e profumi; quasi un Bignami della cultura contadina.
Ed allora zuppe di tutti i tipi, da quelle classiche di verdura che riproposte il giorno dopo sono diventate le ribollite, ma anche quelle “monografiche” di cavolo nero o di fagioli, quelle montanare con aggiunta di castagne secche, quelle ricche con la cotenna di maiale o con l’osso di prosciutto bollito per ore insieme alle verdure.
Si racconta di un osso di prosciutto che nelle campagne di Cafaggio è servito per 11 zuppe.
Ancora l’ottima zuppa di chiocciole e poi la versione estiva, in maniche corte, la favolosa panzanella magari arricchita con pezzetti di acciughe sotto sale.
La panzanella è stata definita un piatto difficilissimo da realizzare, perché ci vogliono verdure appena raccolte, che fanno rumore sotto i denti, pane contadino raffermo, olio saporito, aceto bianco sopraffino ma da questa base possiamo anche partire per introdurre varianti; ecco una strada che chiede di essere percorsa da aspiranti cuochi-viaggiatori.
La versione più disperata della zuppa è quella dei braccianti senza terra che non avevano neppure le verdure dell’orto e la loro zuppa era disperata anche nel nome: acqua cotta.
E’ il piatto della maremma di sotto, della maremma grossetana dove le truppe dei disperati ingaggiati sulle colline senesi e pistoiesi per i lavori stagionali, la cosiddetta “leggera”, trovava, anche a tavola, la maremma amara.
Io, sono nato proprio sopra la linea Maginot dell’acqua cotta, che parte da Follonica e attraverso Massa M.ma, e Prata arriva a Siena, sono nato dalla parte della zuppa e quindi dalla parte dei mezzadri che avevano miseria si ma con l’orto, io, che sono maremmano, non ho mai mangiato l’acqua cotta.
E in famiglia ci se ne vanta ancora.
Un altro filone di primi piatti è quello costituito dalle “minestre” e guardate che nella nostra tradizione si incontra una varietà enorme di preparazioni.
Dalle minestre di legumi, a quella geniale di pesce da non confondere con il cacciucco, dalla minestra di farro che ormai è famosa come fosse stata al Costanzo show, alla grande minestra di bordatino all’uso pisano
Presentiamo ora un primo che utilizza l’orzo, abbandonato dalla famiglia dei ristoratori alla moda ed in attesa di adozione ed un pesce uscito fresco fresco da Super quark: la murena.
Chiamiamolo orzotto alla murena.
Siamo al piatto forte ed allora dobbiamo mettere in pratica tutto la nostro sgangherato armamentario ideale e cercare di partire da piatti con uso di verdure.
Potremmo rifarci a quella serie di piatti di pesce che si inventarono le nostre nonne quando le pescherie cigolavano. Mi ricordo ancora, nelle campagne intorno a Piombino, il pesciaio con la bicicletta con due cassette, una davanti ed una dietro, coperte da una balla bagnata e con dentro pesci che non temevano i sobbalzi delle strade sterrate (vorrei averle viste le signorine orate di allevamento in quelle condizioni).
La bilancia di ottone legata alla canna e due borse al manubrio per caricare le verdure, le uova, i galletti che venivano dati in cambio del pesce.
Ma succedeva sempre che il pesce era poco (o le bocche tante, a scelta) e allora sono nate le grandi opere come il polpo con le bietole, le seppie con i piselli, il baccalà con le patate, le donne di Modigliani ed altri ancora. Bei piatti su cui potremmo esercitare l’arte dell’innovazione, ma sarà per un’altra volta.
Oppure potremmo puntare sulle carni in umido, le trippe, i calli, ma oggi si storce la bocca per questi piatti trigliceridosi ed allora facciamoci del male, lasciamo morire questa grande tradizione di coloro che mangiavano così pochi grassi da poterne mangiare molti.
Potremmo andare sul rustico che fa tanto maremma: sul povero cinghiale che viene proposto ad ogni sagra, sempre in umido e spesso, per la libidine del gastrosociologo, con alcuni peli neri compresi nell’umido.
Ed il pelo è parecchio country, e fa godere il gastro..qualcosa, come in un famoso film con Tognazzi.
Invece, povero cinghiale, dovrebbe essere dato nelle mani di chi lo conosce davvero.
A chi lo do il cinghiale?
Lo daremo ai sassetani (intesi come abitanti di Sassetta) che stando tra macchie e castagne lo preparano in umido si, ma con un ricchissimo battuto di profumi ed erbe e, vivaddio, senza pomodoro o conserva.
Lo daremo ai castagnetani che invece stanno tra castagne e macchie e cuociono la testa in modo divino, con una preparazione lunga e paziente.
Lo daremo alla trattoria dello Sgherro di Volterra che lo prepara nel modo più normale ed usuale dei tempi in cui i frigoriferi erano ancora nelle palle di Frigido e cioè sott’olio e quindi hanno un grande coppo da cui tirar fuori pezzi dell’animale precedentemente arrostiti con tanto di aromi e legati stretti stretti con foglie di alloro.
Tenero, delicato e, al contrario di come si pensa, di colore chiaro.
Ma non faremo neppure l’animale nero.
Qui, a forza di escludere, si dovrà saltare il secondo, ma non temete, andiamo a rovistare nella miseria e troviamo sicuramente qualcosa.
Se fosse stata primavera avremmo fatto un fritto toscano, utilizzando poche carni di cortile e molti fiori.
Ma già che abbiamo la padella dell’olio (di oliva, anche se non necessariamente extravergine, per favore) in bollore e già che dopo dovremmo buttarlo via, si provi anche a fare dei bocconcini profumati di nepitella.
Come si vede in primavera avremmo la possibilità di fare un intero pranzo di profumi e di fiori, ma siamo in inverno. Allora facciamo dei colli di gallina ripieni,
anche se non verranno strepitosi come quelli del Cibreo di Firenze dove portano in tavola anche la testa della gallina lessata, sorridente e benevola che guarda mangiare il proprio collo e scatena gridolini tra i molti stranieri che hanno ordinato il piatto senza sapere che mangiano un compendio di cultura.
La gallina cantata da Cochi e Renato non è un animale intelligente ma quella cucinata oggi è un animale molto cambiato in questi ultimi trent’anni.
Non perché è invecchiata ed ingrassata come me, ma perché gli allevatori industriali hanno selezionato una razza di gallina orizzontale, con le gambe corte, che ingrassa rapidamente ma che è poco resistente alle malattie ed incapace di badare a se stessa.
Le vecchie galline, quelle che facevano buon brodo, erano invece animali dalle lunghe gambe, galline verticali, che crescevano poco ma erano resistenti talvolta anche alle volpi, mangiavano sempre andando a scovare perfino lucertole, serpentelli ed i grassi lombrichi di concimaia.
Quelle galline non avevano bisogno di antibiotici, di anabolizzanti, di ormoni e siccome questi rimangono nel fegato e nelle carni dell’animale mentre il puzzo di concimaia no, ne risulta che oggi siamo costretti a mangiare animali puliti, inodori ( e insapori) che possono anche nuocere alla nostra salute, come le sigarette ma senza la scritta sul petto.
I nostri contadini amavano gli animali di cui erano circondati ma non avevano nessuna remora a farli fuori per mangiarli; ricordo ancora mia nonna ottantenne, mite, piccolissima e vestita di nero, completa di “pezzola” in testa, che non aveva più la forza di ammazzare una gallina in una leale competizione ed allora la legava per le gambe al tronco di un albicocco che avevamo nell’orto e ci combatteva per mezze giornate prima di tirargli il collo.
Insieme alla gallina lessa possiamo preparare un contorno dal sapore deciso e quindi possiamo optare per quel gran dono dell’inverno che sono i figli deformi di padre carciofo: i gobbi, o, come li chiamiamo noi toscani, i cardìni (attenti all’accento tonico altrimenti cucinerete cose durissime e le porte vi cadranno in terra).
Se invece si volesse fare un piatto di mare vi consiglio di cimentarvi con le acciughe o le sarde; perché il pesce azzurro fa bene non a leggerne, ma a mangiarlo davvero.
Spesso per noi “civilizzati” l’immagine supera il reale e così per fare il cicloamatore basta avere una bici milionaria (nel senso del costo) e poi una divisa dai colori assurdi tipo camaleonte drogato. Pedalare? è un optional.
Così per la cucina mediterranea; il mediterraneo noi l’abbiamo intorno e gli americani no, quindi festeggiamo al primo Mac Donald.
E invece le sarde e le acciughe ( che ora si fanno chiamare Alice, come le cantante) sono lì a ghignare e ci aspettano al varco.
Nella vecchia cucina mezzadrile quando il pesciaio le portava si facevano le “acciughe accoppiate”
Ma noi, che abbiamo letto della grande avventura culturale e gastronomica di Adrian Ferran (ma prima o poi ci andremo) e di come Lui, nella terra di Dalì e di Picasso, scompone gusto e consistenza, forma e sostanza, noi che siamo di razza marittimo-contadina, proponiamo un semifreddo di acciughe.
S’è quasi finito.
Io non porterei in tavola formaggi, per rispettare principi salutistici e giusti principi ebraici, che proibiscono l’accostamento di carni e formaggi nel medesimo pasto, ma anche perché abbiamo mangiato fin troppo.
Porterei invece un dolce che a raccontarlo è anche vergogna, la crema di ricotta al miele di acacia.