Il peposo è uno dei piatti toscani che apprezzo maggiormente, vuoi per il suo sapore rustico e deciso, vuoi perché mi rimanda alla Toscana più autentica, genuina, semplice e schietta.
Si tratta di uno spezzatino di muscolo cotto nel vino rosso, preferibilmente il Chianti. La carne deve sobbollire nel vino per diverse ore, durante le quali attraversa tre fasi: inizialmente risulta gommosa, poi diventa dura, infine comincia a sfilacciarsi divenendo tenerissima.
Il peposo prende il nome dal pepe abbondante con cui si cuoce (qualcuno lo mette macinato, qualcuno mette proprio i grani interi, che è preferibile scartare quando si mangia). Viene detto «alla fornarina» in quanto veniva cotto in speciali cocci nei forni in cui venivano cotti i mattoni d’argilla, nonché «all’imprunetina» nel senso di alla maniera di Impruneta, o dell’Impruneta come dicono i vecchi, ove esiste una tradizione di produzione della terracotta che viene tramandata sin dal Medioevo.
La ricetta più semplice prevede solo carne, vino e pepe. Io ci aggiungo un filo d’olio extravergine d’oliva e due spicchi d’aglio schiacciati. Qualcuno aggiunge delle piante aromatiche, ad esempio rosmarino (ramerino in Toscana) e lauro (alloro). Qualcuno per fare il figo (in Toscana fico, e con la c aspirata: mi raccomando!) sostituisce il pepe nero con quello verde, oppure serve il «peposo ai tre pepi». Mi è capitato di mangiarlo in un ristorante ove è uso alternare i grani di pepe a bacche di ginepro: stratagemma forse adottato per motivi economici, ma che si è rivelato molto piacevole al gusto. Chi non gradisce l’odore forte del muscolo di vitello adulto può correggerlo con un pizzico di polvere di chiodi di garofano, oppure un paio di chiodini.
In alcune ricette ho visto usare la cipolla, in altre il concentrato di pomodoro. Quest’ultima aggiunta è più un vezzo per arrossire la pietanza, che sicuramente origina da prima che noi europei scoprissimo il pomodoro, che, comunque, come noto inizialmente veniva importato dall’America per soli scopi ornamentali, mentre fa la sua prima comparsa – sulle tavole napolitane, ça va sans dire – quasi sulle soglie dell’età moderna.
Personalmente non rosolo la carne prima dell’ebollizione, non tanto per rispetto alla tradizione quanto perché, dato che il liquido è destinato a formare una salsina con la carne e ad essere in parte riassorbito dalla stessa, è inutile chiudere i pori come quando si fa il bollito ma non ci serve il brodo. E comunque la consistenza del prodotto alla fine è molto diversa da quella della carne lessata.
Tuttavia quando l’ho fatto a casa a me il sughetto è venuto abbastanza liquido, per poi rapprendersi solo con una riduzione effettuata l’indomani, mentre quando lo mangio fuori è quasi sempre piuttosto cremoso. Qual è il segreto? Forse qualcuno infarina i pezzi di carne e li soffrigge, quindi il sugo si rapprende fungendo la farina da addensante?
Si tratta di uno spezzatino di muscolo cotto nel vino rosso, preferibilmente il Chianti. La carne deve sobbollire nel vino per diverse ore, durante le quali attraversa tre fasi: inizialmente risulta gommosa, poi diventa dura, infine comincia a sfilacciarsi divenendo tenerissima.
Il peposo prende il nome dal pepe abbondante con cui si cuoce (qualcuno lo mette macinato, qualcuno mette proprio i grani interi, che è preferibile scartare quando si mangia). Viene detto «alla fornarina» in quanto veniva cotto in speciali cocci nei forni in cui venivano cotti i mattoni d’argilla, nonché «all’imprunetina» nel senso di alla maniera di Impruneta, o dell’Impruneta come dicono i vecchi, ove esiste una tradizione di produzione della terracotta che viene tramandata sin dal Medioevo.
La ricetta più semplice prevede solo carne, vino e pepe. Io ci aggiungo un filo d’olio extravergine d’oliva e due spicchi d’aglio schiacciati. Qualcuno aggiunge delle piante aromatiche, ad esempio rosmarino (ramerino in Toscana) e lauro (alloro). Qualcuno per fare il figo (in Toscana fico, e con la c aspirata: mi raccomando!) sostituisce il pepe nero con quello verde, oppure serve il «peposo ai tre pepi». Mi è capitato di mangiarlo in un ristorante ove è uso alternare i grani di pepe a bacche di ginepro: stratagemma forse adottato per motivi economici, ma che si è rivelato molto piacevole al gusto. Chi non gradisce l’odore forte del muscolo di vitello adulto può correggerlo con un pizzico di polvere di chiodi di garofano, oppure un paio di chiodini.
In alcune ricette ho visto usare la cipolla, in altre il concentrato di pomodoro. Quest’ultima aggiunta è più un vezzo per arrossire la pietanza, che sicuramente origina da prima che noi europei scoprissimo il pomodoro, che, comunque, come noto inizialmente veniva importato dall’America per soli scopi ornamentali, mentre fa la sua prima comparsa – sulle tavole napolitane, ça va sans dire – quasi sulle soglie dell’età moderna.
Personalmente non rosolo la carne prima dell’ebollizione, non tanto per rispetto alla tradizione quanto perché, dato che il liquido è destinato a formare una salsina con la carne e ad essere in parte riassorbito dalla stessa, è inutile chiudere i pori come quando si fa il bollito ma non ci serve il brodo. E comunque la consistenza del prodotto alla fine è molto diversa da quella della carne lessata.
Tuttavia quando l’ho fatto a casa a me il sughetto è venuto abbastanza liquido, per poi rapprendersi solo con una riduzione effettuata l’indomani, mentre quando lo mangio fuori è quasi sempre piuttosto cremoso. Qual è il segreto? Forse qualcuno infarina i pezzi di carne e li soffrigge, quindi il sugo si rapprende fungendo la farina da addensante?
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