di Enzo

Il nome dei cibi.

©nicolaimpallomeni.it
Voglio infine farvi perdere un poco di tempo per riflettere sul nome dei cibi.
Nei cibi che scegliamo vogliamo raccontarci chi siamo e quindi il nome delle cose che mangiamo è forse più importante del cibo in sé.
Il verbo non era solo al principio ma anche nei menù e se gli estensori del Testamento avessero frequentato di più i ristoranti lo avrebbero saputo.
Di questo le nostre nonne contadine non erano capaci e quindi le cose che cucinavano le chiamavano con nomi banali, adatti ad una platea di gente affamata che mangiava le cose e non i nomi o addirittura non le chiamava per nulla.
D’altronde quando ai figli si mettevano nomi come Primo, Secondo, Terzo, Finimola o Ultimo era davvero curioso che si perdesse tempo a studiare i nomi dei piatti.
Invece per noi è importante raccontarci i nomi delle cose ed infatti i menù sono carte sempre più eleganti ed i nomi dei piatti raccontano la cultura del ristorante, le sue pretese, i problemi esistenziali del cuoco e via analizzando.
Divertitevi, quando vi capita, a fare il profilo psicologico del ristorante analizzando la loro carta; una sorta di gastroanalisi ragionata. Oppure provare il piacere di ordinare a caso, pensando ad un numero prima di mettervi a sedere e quindi ordinando, che so, il 4° dei primi piatti, il 4° dei secondi, il 4° dei contorni. Di solito ne usciamo più soddisfatti perché spesso succede che dopo la delusione di un pranzo mediocre ci rimproveriamo di non aver scelto quel tale piatto che pure avevamo visto sul menù.
E sbagliamo, perché quel tale piatto era mediocre come quelli che pur abbiamo scelto con tanta speranza.
Io credo di essere un collezionista di menù, nel senso che li guardo con attenzione (perché? non ci può essere un collezionismo visivo ? almeno poi non ho bisogno di ripiani in sala per esporre e le cose della memoria non vanno spolverate ) e allora ricordo i menù scritti sulle lavagne, come alle “Belle Donne” di Firenze, nella omonima via (e qui l’indirizzo già aiuta la trattoria che peraltro cucina davvero bene).
Ricordo i menù in ungherese stretto, scritti su copie illeggibili in carta carbone (ma anche se fossero stati leggibili era lo stesso) nei primi viaggi alla fine degli anni ’60 e la sorpresa di vedere cosa si fosse mai ordinato, ricordo certi menù dei ristorantacci messi su nelle zone colpite a tradimento dal boom turistico che sembrano autostrade e che elencano tutto il banale, ricordo certi menù unti di ristoranti rustico-spinto dove l’oste ti da del tu e la cuoca grassa esce dalla cucina in ciabatte o ancora i menù che elencano preparazioni “dello chef” e ti domandi se quella autodefinizione servirà come compensazione psicologica del signore bassino e pelato che intravedi in cucina.
Ricordo dei ristoranti dove si paga in proporzione inversa ai diminuitivi che trovi sui menù, dove è tutto “..ino”, dagli spaghettini agli sformatini, agli assaggini; un asilo-nido della gastronomia.
Insomma ho una bella collezione.
Quindi oggi è importante dare ai piatti i nomi che i commensali vorrebbero che avessero ed anche in una cena tra amici, in un pranzo di parenti, potete stampare un menù personalizzato che farà piacere forse più di un piatto indovinato.
Insomma un piccolo computer diviene uno strumento gastronomico di primaria importanza.
La Grilli di Campalto quando fecero cavaliere il marito si mise di impegno a parlar bene ed ebbe modo di far sapere, in occasione di un pranzo importante, che amava in modo particolare la maionese ed era entusiasta dell’insalata “sovietica” sembrandogli questa molto più fine dell’insalata russa che pure mangiava prima del cavalierato maritesco.
Noi popoli grassi non abbiamo bisogno di mangiar cibi, ma attraverso i cibi mangiamo la rappresentazione che vogliamo dare e darci di noi stessi e quindi il nome di quello che paghiamo è più importante di tutto il resto.
Delle ricetto che vi ho raccontato quindi non ho dato nomi precisi perché questi vanno costruiti pensando ai vostri commensali e all’immagine che vorrete dare di voi stessi.
Quindi la minestra di bordatino potrete chiamarla appunto “minestra di bordatino all’uso pisano” se volete collocarvi in target colto-rustico, ma anche “crema di fagioli bianchi con farina di mais” se volete stare sul versante nouvelle cousine, oppure “minestra di zia Giovanna” se vi rappresentate come amici oppure se è un pranzo di parenti e volete celebrare una defunta, insomma il nome dei piatti sono una delle principali risorse del cuoco.
Altro che cucina di mercato, qui siamo sulla cucina di vocabolario.
Siamo alla fine e per chiudere la cena e soprattutto il libro vi racconto del rosolio.
Si prendono le rose, già, ma che rose ? C’è chi prende i petali di rosa ma io preferisco le bacche di rosa canina. Come si raccolgono le bacche di rosa canina ? E’ molto semplice; si va a fare funghi e quando non si trovano non rimane che rifarsi con due frutti del bosco che sono coetanei agli ultimi funghi delle nostre macchie.
Ecco quindi per i fungai mancati, le corbezzole e le bacche di rosa canina, entrambe rosse ed entrambe al giusto punto di maturazione quando incominciano ad essere morbide.
Con le prime, le corbezzole, che crescono dall’albero dal legno durissimo che noi chiamiamo “albatro” e che porta contemporaneamente fiori bianchi a campanula e frutti maturi, con le prime, dicevo, si può fare una splendida marmellata avendo cura di passare le polpe cotte dal setaccio fine per eliminare i piccoli e fastidiosi semi.
La polpa passata, con aggiunta di egual peso in zucchero, bucce d’arancio e quant’altro vi piace, si fa cuocere a lungo e si invasa caldissima in barattoli ermetici.
Sempre con la polpa passata ed ¼ di zucchero si può fare un sorbetto che, quando lo portate in tavola, farà clamore specie se avete commensali di target rustico-scic.
Anche con le bacche, che sarebbe bene chiamare drupe, di rosa canina si possono fare marmellate o sorbetti, ma ce ne vuole una quantità superiore ai graffi sopportabili sulle mani quando si raccolgono.
Si può allora metterne ½ kg. in 0,75 litri di alcool alimentare e farcele stare per una quindicina di giorni, salvo che non ve lo dimentichiate e ci stanno magari un mese.
Quando ve lo ricordate comunque filtrate e unite ad acqua in cui avrete fatto sciogliere zucchero e filtrate con le apposite carte finchè il composto non divenga trasparente e di un bel colore ambrato.
Ora mi chiederete le dosi, ma come faccio io a sapere come vi piace il rosolio ? mi sbilancio e vi dico: se vi piace dolce metteteci più zucchero, se vi piace forte metteteci meno acqua.
Se non vi piace come vi è venuto, imparate per quest’altr’anno e intanto comprate delle belle bottigline e per Natale regalate il vostro Rosolio ai parenti più buoni.
Ora mi riposo, ho terminato di divertirmi a scrivere, ma d’altronde siamo tutti pieni, eppure m’è avanzata tanta roba. Come nelle gite del sindacato pensionati.