di betti.
© Rita Mezzini

Provo a raccontarvi qualcosa della tradizione gastronomica della mia famiglia, che ha le sue radici in quella zona chiamata Alto Appennino Bolognese.
E’ innanzi tutto una zona di confine, con la provincia toscana di Pistoia in primis, ma anche con quella di Modena, ragion per cui le influenze sono molteplici.
Occorre anche dire che dove abito io non è ancora montagna, ma collina, che la terra è sempre stata generosa e quindi la cucina non è mai stata una cucina “povera”. Certo, in passato c’era miseria anche qui, soprattutto nelle famiglie che non potevano contare su di un pezzetto di terra, e che vedevano carne ben raramente sulle loro tavole.
E’ risaputa la storia di quella massaia del paese che una volta alla settimana picchiava il coltello sulla battola, a vuoto, per far credere ai vicini che stesse preparando il battuto per fare il ragù!
La presenza delle Terme e dell’ospedale, il più vicino per le genti della montagna, hanno sempre portato a Porretta molta gente, e fino ad alcuni decenni fa esisteva una rinomata scuola alberghiera.
In estate molte famiglie che avevano una stanza in più, affittavano ai villeggianti che venivano a “passare le acque”, creando spesso un rapporto di familiarità che comportava anche l’acquisizione di ricette di altre province.
In ogni caso, la tradizione gastronomica rimane sostanzialmente legata alla terra ed ai suoi prodotti, sia coltivati che spontanei.

Le grandi feste contadine erano quelle in occasione della battitura del grano, o delle grandi battute di caccia; l’uccisione del maiale nel periodo precedente il Natale è una tradizione che rimane viva ancora oggi.
Uno dei prodotti sicuramente più tipici di questa zona sono le crescente nei testi.
Mi sento molto don Chisciotte a voler testardamente combattere contro la volgarizzazione che ha portato a diffondere l’errata denominazione di “tigelle”.
Il nome nasce dalla pasta lieviata, che quindi cresce e che viene cotta nei “testi”.
Questi sono dei dischi di terracotta che venivano arroventati nel camino ed impilati uno sull’altro in un apposito contenitore di legno.
Tra un testo e l’altro veniva messa a cuocere la pasta.
Il nome tigella (dal latino tigulum), come spiega Attilio Neri nel Vocabolario del dialetto Modenese, indica appunto il “testo” e non quello che viene cotto in esso.
Purtroppo la diffusione nei supermercati di prodotti similari denominati tigelle ha fatto sì che il vero nome fosse sconosciuto ai più, mettendone in pericolo addirittura la sopravvivenza.
Le crescente sostituivano il pane, che veniva fatto una volta alla settimana e naturalmente necessitava una preparazione piuttosto lunga. Essendo queste un impasto diretto, era possibile prepararle in qualsiasi momento.
Ho ancora nelle orecchie la voce di mia zia Gabri, quando da piccola andavo a trovarla era immancabile che mi dicesse: facciamo due crescente? così, in quattro e quattr’ otto.
Se chiudo gli occhi la vedo ancora cuocerle nei ferri di ghisa (gli stessi usati per i necci e che avevano sostituito nel tempo i vecchi testi) sulla cucina economica, e poi aprire lo sportellino e far ruotare la crescenta, impugnata con le molle del camino, nella cenere delle braci. Con la destrezza derivata dall’uso, la crescenta girava su se stessa, gonfiandosi e cuocendo anche lungo il bordo.
Ora che nelle case i camini sono scomparsi, ed anche le cucine economiche, non ci resta che usare gli stampi preformati ed il fornello a gas, perdendo così il sapore ed il profumo che solo il fuoco di legna possono dare.
Ideale accompagnamento delle crescente sono i salumi, meglio se grassi, poichè il grasso si scioglie col calore, sprigionando tutto il suo aroma; quindi si a pancetta arrotolata, prosciutto, salame, coppa d’inverno e pesto, nella doppia versione cruda e cotta.
In casa mia le crescente sono sempre accompagnate anche dalla peperonata e se si vuol fare davvero festa ad una cacciatora conviene mettere in conto di impastare un po’…
MAI, dico MAI le crescente si mangiano con la mortadella!

 

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